...fermiamoci ad osservare

domenica 20 febbraio 2011

Il tocco


                     
Ho le mani fredde, le tengo immobili dentro le tasche per cercare di scaldarle; la sigaretta fa tutto da sola incastrata tra le mie labbra; i denti battono rapidi ma silenziosi cercando di macinarsi a vicenda come fosse una corsa all’ultimo sopravvissuto. Osservo al di là della strada, oltre la vetrina di un bar dal nome buffo, che mi ricorda quand’ero ragazzino e ascoltavo i Nirvana; Molly’s lips, bacia, bacia le labbra morbide di Molly, il sole splende in questa stanza quando giochiamo, l’oscurità mi avvolge quando te ne vai. Sono attratto da quel nome, sono attratto da quel locale, da quel bancone, da quei caffè, ma non posso entrare; il mio compito è restare qui, ad osservare, almeno per ora. Sto cercando una persona, sto cercando un uomo, un uomo cattivo. Devo stanarlo e portarlo allo scoperto. Mi serve vivo.
Il freddo è devastante, la sigaretta finita mi sta bruciando le labbra ed è davvero doloroso ma non trovo la forza di tirar fuori le mani; cerco di sputarla, di farla cadere, attratta dalla gravità; mi sento ridicolo; un signore dai lunghi capelli biondi mi passa davanti guardandomi con aria stranita, forse divertito da questa scenetta raccapricciante: un poco più che ragazzino fermo davanti ad un tabaccaio chiuso, alle sette di mattina con le mani in tasca e la testa bassa che, pieno di tremori, tenta invano di far staccare un filtro ormai saldamente attaccato, perfettamente consapevole che non funzionerà. Il fumo mi si insinua beffardo negli occhi facendomeli lacrimare; gocce salate che subito si congelano agli angoli come un minuscolo ruscello di montagna che spera di arrivare a valle e lotta, lotta ma prima che possa immaginarlo si ritrova immobile su un sentiero che non può più essere percorso né in una direzione né nell’altra. Provo ad afferrarla coi denti e questo tentativo mi porta ad alzare la testa di nuovo verso il Molly’s Lips; mi sembra di guardare attraverso un vetro su cui si sta scagliando una tempesta di pioggia e di polvere portata dal vento; le persone sono sbiadite e i profili sdoppiati; finalmente il mio cervello lancia il giusto imput al braccio e le dita sfuggono fuori dal taschino dei jeans e aggrediscono quel mozzicone puzzolente, schiacchiandolo come un grissino e gettandolo in mezzo alla strada; un tizio col cappellino dei Red Sox sta entrando nel bar, vestito tutto di nero con una valigetta in mano e uno zaino sulle spalle; si ferma sull’uscio un attimo, si guarda intorno, destra, sinistra, avanti e poi si muove; si siede su uno sgabello davanti al bancone e fa un cenno al barista. È lui. È il mio uomo. L’ho trovato. La soffiata era esatta, precisa, almeno su posto e ora; adesso devo capire se ha davvero ciò che voglio. Le opzioni sono due: la prima, entrare nel locale, ora, avvicinarlo e scambiare due chiacchiere, gettare un amo e vedere se abbocca; la seconda, seguirlo, vedere dove va cosa fa con chi parla e capire se davvero è lui l’uomo che cerco.
Troppo tardi, si è alzato e sta pagando il suo caffè; esce; dove va? Lo seguo.
M’incammino verso di lui, attraverso la strada semivuota e raggiungo l’altro marciapiede; lo osservo camminare con passo svelto, come se stesse sulle spine, come se avesse fretta; con le mani di nuovo in tasca procedo passo dopo passo seguendo la scia immaginaria del mio bottino che se ne va. Cerco di restare mimetizzato e nascosto dietro ai corpi mezzi addormentati che mi procedono contro, ma così rischio di perderlo; non posso permettermelo. Devo concludere oggi; domani sarebbe ormai tardi, troppo tardi. La soffiata diceva chiaramente che lo scambio avverrà questa mattina, la fonte è sicura, quindi non mi resta molto tempo. Affretto il passo sentendo i muscoli scaldarsi molto lentamente e una specie di formicolio si fa strada rapido sulle cosce, sotto il cotone dei miei Levi’s, come spilli dalla punta rovente; il cuore prende il ritmo di un brano di Eminem saltando di qua e di là dentro la cassa toracica; i polmoni cercano una spinta in più per poter sostenere lo sforzo che a cinque gradi sotto zero diventa insostenibile; gli occhi non sbattono nemmeno più, restano fissi sull’obiettivo come una macchina da presa cinematografica rimane immobile sul primo piano del protagonista. Col fiato che diventa sempre più corto vedo il soggetto svoltare rapido a destra inoltrandosi in un vicolo stretto e buio, diretto chissà dove; corro, è il momento, non devo perderlo. Ma quando giro l’angolo non lo vedo, semplicemente sparito, nel nulla, apparentemente. Mi giro e mi rigiro, le braccia mi sbattono sui fianchi in un vortice di freddo; gli occhi sono ora diventati due leoni che corrono alla ricerca di una preda nascosta nel buio della foresta. Niente; vuoto.
Sconfitto e amareggiato resto lì, immobile, stupido e stupito; com’è potuto succedere? Dove diavolo si è andato a nascondere quel maledetto? Un rumore alle mie spalle mi coglie di sorpresa, un suono strano come di un barattolo di latta che cade e rotola dietro di me. Mi giro. La canna di un revolver mi fissa come se mi conoscesse da sempre, impugnata da una mano nescosta dentro ad un guanto di pelle nera; il pollice si muove scaltro e il rumore tipico del tamburo che viene caricato è inquietante, molto simile a quello che si sente nei film, ma sostanzialmente diverso; è qui; È nei miei timpani e nel mio cervello. Lo sguardo che sta dietro quella mano sembra diabolico e allo stesso tempo rassicurante, come se nulla folle importante perché tanto nulla importerà più, non dopo che quel grilletto avrà cantato la sua personalissima melodia omicida; non dopo che il mondo si sarà fermato nel frastuono di un colpo di pistola. I suoi occhi sono scuri come il nulla e le narici non si muovono di un millimetro; nessuna paura sembra vivere su quel volto. Lo guardo in silenzio ma con la bocca spalancata, senza riuscire a dire nulla, nemmeno un fiato. Il cuore, il mio povero cuore tenero come una fetta di cheesecake, si ferma, per un attimo, e resta a guardare quella canna nera fissa su di me, poi riprende il suo cammino, la sua corsa, che diventa subito una cavalcata incotrollabile di uno stallone inferocito intrappolato in un recinto troppo piccolo per poterlo contenere. La sua testa fa un piccolo movimento verso destra, come se stesse cercando di ascoltare un rumore in lontananza, le palpebre si distaccano leggermente come a dire dai, credevi davvero di soprendermi alle spalle piccolo principiante? Le labbra si socchiudono appena, sento un respiro abbandonare la sua bocca, sa di caffè e di tabacco. Il dito indice fa un lavoro minimo, insignificante e la canna si illumina di una luce rossa come il fuoco e come il sangue; il colpo arriva istantaneo su di me, sulla mia fronte, tra i miei occhi. Sento una forte spinta che mi sposta all’indietro, le gambe cedono, la testa s’inclina verso il cielo e cado.
Il calore sulla fronte è insopportabile ed in pieno contrasto col freddo del cemento sulla schiena; la pioggia cade rumorosa sulla mia faccia rossa portandomi direttamente in bocca un liquido rosso che puzza e pizzica e appiccica; in lontananza una signora dal cappotto giallo corre verso la fermata dell’autobus, un bambino saltella sotto un ombrello viola, un cane alza una zampa lasciando le altre tre immobili sul prato verde, con aria beata. Io respiro, semplicemente.
“Toccato”.
La sua voce è calma; il suo viso impassibile, ma soddisfatto.
“Dove ho sbagliato?” chiedo inquieto alle nuvole mentre la sua mano si allunga verso di me, come un pilastro, un punto fermo. Oggi c’è, ieri c’era e so che anche domani sarà lì ad aspettarmi.
“Sei ancora troppo prevedibile amico mio“, mi alza e mi abbraccia.
“Domani il cattivo lo fai tu, così ti insegno come seminare un poliziotto!“. Il suo orgoglio è enorme nel pronunciare queste parole.
“Va bene, ma sono certo che domani vincerò io! A proposito, che diavolo hai messo in quella pistola? Ketchup?“.
“Ketchup, sì, con un po’ di curry e tre gocce di olio tartufato“.
“Dai, così non vale! Maledetto! La prossima volta ti stendo con un soffritto di cipolla e aglio!“. Sorrido, lo guardo dritto negli occhi e penso a cosa farei se non ci fosse lui.
“Andiamo và, sta per suonare la campanella e siamo già in ritardo. Sei pronto per il test di matematica?”. I vestiti bagnati, il viso rosso e molestato.
“Certo, e tu?“. Sorride.
“Ovvio!“.

5 commenti:

  1. inizi a leggere e la tua mente immagina verso una direzione e a un certo punto tutto quello che ti eri immaginata è completamente diverso! bellissimo!

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  2. mi ero talmente fatta catturare,che a momenti non mi rendo conto del" cambio "...!!incredibile!

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  3. @Anonimo...obiettivo raggiunto grazie a questo tuo commento! ;)

    @Kim..sei sempre troppo buona :)

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  4. ok, hai fatto un passo verso lo stile del Re...

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  5. grazie Dani!!! gran complimento questo..se ho capito chi è il Re!!!! ;)

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