...fermiamoci ad osservare

domenica 27 febbraio 2011

Danza di Me

Questo nasce dalla folle  mente di Lei, Lei, la protagonista del mio romanzo!!
Nasce dalla rabbia, cresce nella disperazione. Lei. 

La pazza disse... amor(t)e.

                                                         
Letto di morte cammina con me, trascina il mio respiro, ascolta il mio respiro, respira il mio respiro.
Un giorno, credo, avrò il coraggio, un giorno abbraccerò una morte e poi un’altra e un’altra ancora; spezzerò le voci, fermerò il cuore della gente, brucerò le sporche ali degli angeli, spazzerò ogni speranza.
Solo odio e niente amore.

Letto di morte vicino a me, ingannerò Dio in persona giocando a risiko con Satana, il Diavolo, la Bestia, il corpo in anima d’Essere Dio in Me_
Coi dannati la mia danza è più sincera, più aggraziata e più virile.
Voglio mostrar la morte agli eterni, agli angeli e ai benedetti, voglio mostrargli la verità; la mia mente è acuta stasera: guarderò il tuo sangue scorrere denso sulle mie dita affaticate e soddisfatte.
Guarderò il sangue scorrere denso al di là della Tua Vita.
Carnefice testardo, imbratto i muri col tuo rosso Essere.
Godrò di ogni tempo e di ogni battito_ godrò di quell’attimo fulmineo, quell’istante della morte in cui avrò in mano il tuo ultimo respiro.

Letto di morte danza con me, mostra la tua arte sanguinosa e sensuale, mostra la tua faccia.
Letto di morte danza in Me_Danza.

venerdì 25 febbraio 2011

Il mio Canyon

Esercizio corso di scrittura creativa, l'ennesimo. Remake del racconto di una compagna di banco. La sua storia..dal mio punto di vista.



                                                     Il mio Canyon

Sono immobile e sto in silenzio; la bocca si è aperta e non vuole più chiudersi; le ciglia cercano di non congiungersi più le une alle altre, per non perdersi nemmeno un secondo di questo spettacolo. Sento la mano sudata di mio marito stringere la mia, sempre più forte. Fino a un attimo fa camminavamo tra gli alberi seguendo un sentiero che ha poco di straordinario, immaginando come sarebbe stato il famoso Canyon e mi chiedevo cosa avrei provato una volta arrivata, dopo questa salita; ma ora, qui, davanti a questo immenso vuoto pieno di colori e odori e riflessi, il silenzio ruba la scena all’immaginazione, lasciandomi sulla pelle uno strato ruvido di brividi e in bocca il nulla; non un suono, non una parola. Davanti a noi le rocce si colorano di arancione sotto il respiro di un tramonto che toglie il fiato; dietro, gli alberi restano immobili a fissarci, me li immagino sorridere un po’ commossi; a parte noi, nessuno in questo momento sta osservando il Canyon, siamo soli.
Scende la sera e decidiamo di rituffarci nella magia del Canyon, per godere di un differente punto di vista. Le aspettative non ci tradiscono, lo scenario lascia a bocca aperta, ancora. Tutte quelle stelle lassù, così luminose, così numerose, così meravigliose. Questa volta riesco a dire una sola parola: wow! Chi mi aveva detto di non perdere tempo, di correre a vedere il Canyon appena arrivati, non sbagliava, mi ha dato forse il miglior consiglio mai avuto.
Guardo questo panorama buio e incantevole, illuminato solo da una coperta di stelle, osservo mio marito perso con lo sguardo in tanta bellezza e mi chiedo: cosa cambia tra questi momenti e gli attimi prima del matrimonio? L’adrenalina che corre dentro di me, la paura dell’ignoto davanti a qualcosa di così immenso eppure così sconosciuto, la gioia incontenibile nel sentire, nel sapere che davanti a tanta grandezza, non sono sola; le domande che affollano la mia testa sono le stesse: cosa ci sarà dopo questa salita? Come sarà dopo?
La risposta è qui davanti a me ed è semplicissima, come mai nessuna risposta è stata. Sarà diverso e sarà uguale, sarà facile e difficile, sarà giorno e sarà notte, sarà cemento e sarà natura. Sarà quel che sarà. Ho paura sì, è vero, ma qui, davanti a tutto questo, la paura non è altro che un sassolino dentro un canyon. Il mio canyon.

mercoledì 23 febbraio 2011

In una pagina vuota

Esperimento numero..ho perso il conto..forse 4.
Il video fai da te è quello che è..perciò..si accettano sempre buoni consigli!! e buoni conigli!! ;)
Nato da un momento di totale assenza d'ispirazione, il classico blocco dello scrittore. Che fare quando non si riesce a scrivere? Forse la soluzione più ovvia, e per questo più nascosta, è proprio scrivere del fatto che non si riesce a scrivere!
Questo è il risultato.

Video: Dani c'è
Audio: Chopin- notturno in mi bemolle maggiore op.9 n°2(taglio)




                           In una pagina vuota       

Fisso questo foglio bianco come se fosse la cosa più bella che sia mai stata vista. Ne osservo il colore opaco, la consistenza, l’inchiostro orizzontale distribuito uniformemente e la mia ombra, maestosa, sotto questa luce accecante.
Son qui da non so quanto tempo e medito; ho una voglia matta di scrivere, di lasciarmi andare, di imprimere la mia impronta sulla carta, di versare la mia linfa, di gridare la mia storia.
Quante volte ho guardato una pagina bianca e l’ho vista trasformarsi in un racconto, in romanzo, in poesia; era sufficiente lasciarsi andare… il foglio si riempiva di bellissime parole; parole d’amore, di sesso, di passione, ma non solo: si esprimevano sentimenti di ogni sorta e situazioni di ogni genere, spaziando tra odio, violenza, affetto, amicizia, ricordi, rimorsi e rimpianti. Tutto insieme… era magia.
Ma non oggi.
C’è tristezza in questa stanza, oggi. Solitudine. Depressione. Malattia.
Vorrei arrabbiarmi e dare sfogo ad un sentimento che non mi si addice, ad un comportamento che non è da me. Vorrei far scivolare l’inchiostro con rapida naturalezza, come ho sempre fatto.
Vorrei un titolo. Una storia. Un finale. Un giudizio; perché no? Magari… il suo. Amo il suo giudizio, sempre; così preciso e determinato, così semplice, così amaro e così dolce. Così vero.
Vorrei. Vorrei. Vorrei.
Ma non posso. Non ho potere. Alcun potere. La sua mente oggi è affranta, annebbiata. La sua mano inoperante, trema stanca dinnanzi al bianco di un quaderno. Depressa. Ed io… io… il mio inchiostro nero, voglioso di restare impresso per sempre, impaziente di esprimersi, con arte, di raccontare, di spaziare e volare libero, resta in me; chiuso; serrato; fermo; depresso.
Vorrei parlare e dargli forza; ma da sola… nulla posso. Soltanto lui mi può salvare, con il suo speciale tocco.
E aspetto. Aspetto che lui mi impugni un’altra volta, per scrivere le sue storie, per marchiare questo foglio, per inventarsi una magia.
Ancora una volta; felice di essere usata.   


martedì 22 febbraio 2011

pagina 87


Biografia (...)
..e ho preso questa decisione perché credevo fosse quella giusta, per me, per tutto me stesso. Lo credo tutt’ora nonostante la tragica sconfitta e la conseguente delusione. Il problema non è smettere; smettere di per sé è anche facile, se fatto nel modo giusto; no, il problema è proprio non smettere, fare finta di niente e continuare a farsi del male consciamente sapendo che non c’è nulla, nulla di buono nel veleno. Ma il problema in realtà, il vero problema è cominciare e non importa l’età a cui si inizia, non importa a quale pagina della propria biografia si da il via a questo meccanismo di autodistruzione, il male sta in quel primo attimo, in quel primo pensiero, in quella prima boccata di merda.
Un vero fallimento. Metà della mia esistenza a rincorrere un veleno che da dietro una porta di guarda, ti osserva, ti ammalia e ti distrugge, lentamente, non ha fretta lui, no.
Ci saranno ancora molte altre pagine da scrivere è vero, ma questa, la mia decisione più importante, questa è la soluzione. Perché nel percorso, in questi quattordici anni, di segnali ce ne sono stati! Una maledetta infinità; e che fine hanno fatto? Da dietro una porta sono stati guardati, ma non osservati, sono stati sentiti, ma non ascoltati; sin dall’inizio. A volte non siamo in grado di vedere il male nonostante sia fermo a braccia conserte sotto un lampione, nonostante l’abbiamo già visto entrare in casa nostra e litigare con mamma e papà, nonostante abbia una maglia con scritto io sono il male. Tutto questo non può che riportarmi alla mente quel giorno di quattordici anni fa, a metà vita, quando ho fatto la mia scelta; quando ho sbagliato, per la prima volta. Era il 1996; era estate e al Festivalbar suonavano canzoni meravigliose. Come tutti gli anni le vacanze passavano in Valle d’Aosta tra passeggiate in montagna e stambecchi e marmotte e fiori stupefacenti e campi da tennis e piscina e videogames. Il più bello in assoluto era Street Fighter ed io e mio cugino Luca potevamo stare a giocare per ore ed ore pestando a morte dei combattenti valorosi pieni di poteri magici e colpi pirotecnici da k.o.; saremmo riusciti a finirlo se solo i cinquecento lire da metterci dentro non andassero via come il pane; avremmo dovuto rubarli dalle docce del campeggio per poter arrivare al mostro finale; l’abbiamo fatto poi, ma questo sta su un’altra pagina.
Ad agosto in valle si sta da Dio, non si annaspa come a Milano, ma si sguazzava comunque felicemente in piscina; e poi c’era Tamara e il suo fischietto giallo e il suo costumino rosso alla Baywatch. Imperdibile! La sera fa freddo e si stava al bar a giocare a sette e mezzo o a raccontare barzellette. Era bello.eravamo ragazzini. Ma una sera le cose sono andate diversamente; mio cugino è venuto da me dicendomi che aveva una sorpresa. Sapevo bene di cosa si trattasse, l’avevo sperimentata già quel pomeriggio, un po’ di fretta e anche se non mi era piaciuta poi così tanto, ero felice di rifarlo. Non sapevo perché. Oggi lo so.
Ricordo che pioveva, non poco. Abbiamo salutato gli altri con una scusa super ingegnosa e ci siamo incamminati verso la zona sud del campeggio, con calma per non attirare l’attenzione. Niente ombrello, roba da sfigati. Mi sentivo una specie di ladro supereroe in calzamaglia verde e l’arco sulla spalla. La discesa era piuttosto lunga e ripida, con la pioggia incalzante diventava scivolosa e ci voleva davvero poco a fare una figuraccia. Per mia fortuna solo mio cugino mi ha visto ruzzolare come una palla di fieno fino a schiantarmi contro una roulotte, graffiandomi il viso, i gomiti e ovviamente le ginocchia. Rideva lui. Lo ricordo come fosse ieri. Poi siamo arrivati al cancello; wow, era alto due volte me. Arrivavo a metà in punta di piedi e con le mani alzate. Ok, si va. Saltiamo, la felpa si incastra nelle inferriate strappandosi di netto sotto il braccio, io scendo, attratto dalla gravità e lei rimane incatenata e dilaniata sulle punte del cancello. Il freddo era devastante ma come si dice, lo spettacolo deve continuare. Dopo pochi passi il buio era diventato come il mare profondo e non vedevamo assolutamente dove mettere i piedi; le calze dentro le scarpe erano ormai zuppe e i girini crescevano nelle mie Air Max prendendosi gioco di me. Non saranno certo due gocce a fermarmi. Ma un ramo in faccia, quello sì, ti può fermare e può anche farti male. Gli occhiali nuovi sono caduti sul fango e se non fosse stato per Luca e il suo quarantacinque di piede non li avrei mai ritrovati; il rumore è stato piuttosto inquietante: crack. Miope, sotto il diluvio, congelato e graffiato. Dai che manca poco, dobbiamo solo superare i cani. Ma dove cazzo le hai nascoste? Ho freddo! E lui rideva. Di gusto. Ricordo l’odore fresco delle foglie bagnate che sbattevano sulla mia faccia, facendomi bruciare le ferite di guerra. Sentivo i cani abbaiare poco dietro la stalla che si faceva sempre più vicina. Il recinto arrugginito che la delimitava aveva un buco, sotto, in basso, dove i vermi ballano coi lombrichi e le lumache sbavano felici, imitando Pollicino. Ci siamo sdraiati e abbiamo strisciato come i marines; il fango in bocca puzzava di mucca, o forse di capra. Ero diventato ufficialmente un tronco alla deriva in un fiume, grondante e puzzolente e con una voglia di vomitare quel fantastico cheesburger e ci metto su anche le patatine fritte di ieri. I cani per fortuna facevano paura ma la catena era ben ancorata a terra, almeno speravo; in realtà una bella corsetta di salute sotto il diluvio e con la strizza che rimbalza tra cuore e polmoni, ci ha impedito di scoprirlo! Una bella mossa! Peccato quel copertone abbandonato in mezzo al nulla. Peccato quel fango freddo e puzzolente in faccia. Peccato. Di nuovo.
No mamma tranquilla sto bene, ho solo avuto un piccolo inconveniente, nulla di che, no non ti preoccupare, lavo tutto da solo, o forse, che ne dici, butto via tutto?. Già vedevo i suoi occhi assassini. Già sentivo lo zoccolo sulle chiappe. Già mi scendevano le prime lacrimucce. Ma eravamo arrivati. Sotto un cartone, dentro un piccolo capanno, lì stavano e ci aspettavano. Dai dai dai che non vedo l’ora dammene una! Il primi dieci fiammiferi erano fradici ma l’undicesimo, ci ha salvati. Ci ha resi uomini! La prima boccata faceva davvero schifo, la seconda anche, forse la terza era meglio, di sicuro l’ultima mi ha fatto venire voglia di accenderne un’altra. Non ricordo di preciso, ma credo che in un’ora ne avremo fumate almeno cinque. Il ritorno a casa è andato meglio. Siamo usciti dalla boscaglia per raggiungere la strada. Basta fango. Basta. Abbiamo allungato di almeno un’ora e mezza, ma ne è valsa la pena, o no?! Quel giorno la mia vita è cambiata. Senza dubbio. Un passo importante quello di allora. Non posso vivere senza il ricordo perché altrimenti non saprei da dove prendere spunto per crescere e non saprei imparare, riconoscere quell’uomo con quella scritta sulla maglia, che è divenatato amico di famiglia. Un fallimento, sì, ma c’è una novità. Ho trovato un libro, s’intitola ‘É facile smettere di fumare se sai come farlo’. Dicono funzioni. Domani lo leggo. Domani però. Ho ancora quattordici sigarette nel pacchetto. 

domenica 20 febbraio 2011

Il tocco


                     
Ho le mani fredde, le tengo immobili dentro le tasche per cercare di scaldarle; la sigaretta fa tutto da sola incastrata tra le mie labbra; i denti battono rapidi ma silenziosi cercando di macinarsi a vicenda come fosse una corsa all’ultimo sopravvissuto. Osservo al di là della strada, oltre la vetrina di un bar dal nome buffo, che mi ricorda quand’ero ragazzino e ascoltavo i Nirvana; Molly’s lips, bacia, bacia le labbra morbide di Molly, il sole splende in questa stanza quando giochiamo, l’oscurità mi avvolge quando te ne vai. Sono attratto da quel nome, sono attratto da quel locale, da quel bancone, da quei caffè, ma non posso entrare; il mio compito è restare qui, ad osservare, almeno per ora. Sto cercando una persona, sto cercando un uomo, un uomo cattivo. Devo stanarlo e portarlo allo scoperto. Mi serve vivo.
Il freddo è devastante, la sigaretta finita mi sta bruciando le labbra ed è davvero doloroso ma non trovo la forza di tirar fuori le mani; cerco di sputarla, di farla cadere, attratta dalla gravità; mi sento ridicolo; un signore dai lunghi capelli biondi mi passa davanti guardandomi con aria stranita, forse divertito da questa scenetta raccapricciante: un poco più che ragazzino fermo davanti ad un tabaccaio chiuso, alle sette di mattina con le mani in tasca e la testa bassa che, pieno di tremori, tenta invano di far staccare un filtro ormai saldamente attaccato, perfettamente consapevole che non funzionerà. Il fumo mi si insinua beffardo negli occhi facendomeli lacrimare; gocce salate che subito si congelano agli angoli come un minuscolo ruscello di montagna che spera di arrivare a valle e lotta, lotta ma prima che possa immaginarlo si ritrova immobile su un sentiero che non può più essere percorso né in una direzione né nell’altra. Provo ad afferrarla coi denti e questo tentativo mi porta ad alzare la testa di nuovo verso il Molly’s Lips; mi sembra di guardare attraverso un vetro su cui si sta scagliando una tempesta di pioggia e di polvere portata dal vento; le persone sono sbiadite e i profili sdoppiati; finalmente il mio cervello lancia il giusto imput al braccio e le dita sfuggono fuori dal taschino dei jeans e aggrediscono quel mozzicone puzzolente, schiacchiandolo come un grissino e gettandolo in mezzo alla strada; un tizio col cappellino dei Red Sox sta entrando nel bar, vestito tutto di nero con una valigetta in mano e uno zaino sulle spalle; si ferma sull’uscio un attimo, si guarda intorno, destra, sinistra, avanti e poi si muove; si siede su uno sgabello davanti al bancone e fa un cenno al barista. È lui. È il mio uomo. L’ho trovato. La soffiata era esatta, precisa, almeno su posto e ora; adesso devo capire se ha davvero ciò che voglio. Le opzioni sono due: la prima, entrare nel locale, ora, avvicinarlo e scambiare due chiacchiere, gettare un amo e vedere se abbocca; la seconda, seguirlo, vedere dove va cosa fa con chi parla e capire se davvero è lui l’uomo che cerco.
Troppo tardi, si è alzato e sta pagando il suo caffè; esce; dove va? Lo seguo.
M’incammino verso di lui, attraverso la strada semivuota e raggiungo l’altro marciapiede; lo osservo camminare con passo svelto, come se stesse sulle spine, come se avesse fretta; con le mani di nuovo in tasca procedo passo dopo passo seguendo la scia immaginaria del mio bottino che se ne va. Cerco di restare mimetizzato e nascosto dietro ai corpi mezzi addormentati che mi procedono contro, ma così rischio di perderlo; non posso permettermelo. Devo concludere oggi; domani sarebbe ormai tardi, troppo tardi. La soffiata diceva chiaramente che lo scambio avverrà questa mattina, la fonte è sicura, quindi non mi resta molto tempo. Affretto il passo sentendo i muscoli scaldarsi molto lentamente e una specie di formicolio si fa strada rapido sulle cosce, sotto il cotone dei miei Levi’s, come spilli dalla punta rovente; il cuore prende il ritmo di un brano di Eminem saltando di qua e di là dentro la cassa toracica; i polmoni cercano una spinta in più per poter sostenere lo sforzo che a cinque gradi sotto zero diventa insostenibile; gli occhi non sbattono nemmeno più, restano fissi sull’obiettivo come una macchina da presa cinematografica rimane immobile sul primo piano del protagonista. Col fiato che diventa sempre più corto vedo il soggetto svoltare rapido a destra inoltrandosi in un vicolo stretto e buio, diretto chissà dove; corro, è il momento, non devo perderlo. Ma quando giro l’angolo non lo vedo, semplicemente sparito, nel nulla, apparentemente. Mi giro e mi rigiro, le braccia mi sbattono sui fianchi in un vortice di freddo; gli occhi sono ora diventati due leoni che corrono alla ricerca di una preda nascosta nel buio della foresta. Niente; vuoto.
Sconfitto e amareggiato resto lì, immobile, stupido e stupito; com’è potuto succedere? Dove diavolo si è andato a nascondere quel maledetto? Un rumore alle mie spalle mi coglie di sorpresa, un suono strano come di un barattolo di latta che cade e rotola dietro di me. Mi giro. La canna di un revolver mi fissa come se mi conoscesse da sempre, impugnata da una mano nescosta dentro ad un guanto di pelle nera; il pollice si muove scaltro e il rumore tipico del tamburo che viene caricato è inquietante, molto simile a quello che si sente nei film, ma sostanzialmente diverso; è qui; È nei miei timpani e nel mio cervello. Lo sguardo che sta dietro quella mano sembra diabolico e allo stesso tempo rassicurante, come se nulla folle importante perché tanto nulla importerà più, non dopo che quel grilletto avrà cantato la sua personalissima melodia omicida; non dopo che il mondo si sarà fermato nel frastuono di un colpo di pistola. I suoi occhi sono scuri come il nulla e le narici non si muovono di un millimetro; nessuna paura sembra vivere su quel volto. Lo guardo in silenzio ma con la bocca spalancata, senza riuscire a dire nulla, nemmeno un fiato. Il cuore, il mio povero cuore tenero come una fetta di cheesecake, si ferma, per un attimo, e resta a guardare quella canna nera fissa su di me, poi riprende il suo cammino, la sua corsa, che diventa subito una cavalcata incotrollabile di uno stallone inferocito intrappolato in un recinto troppo piccolo per poterlo contenere. La sua testa fa un piccolo movimento verso destra, come se stesse cercando di ascoltare un rumore in lontananza, le palpebre si distaccano leggermente come a dire dai, credevi davvero di soprendermi alle spalle piccolo principiante? Le labbra si socchiudono appena, sento un respiro abbandonare la sua bocca, sa di caffè e di tabacco. Il dito indice fa un lavoro minimo, insignificante e la canna si illumina di una luce rossa come il fuoco e come il sangue; il colpo arriva istantaneo su di me, sulla mia fronte, tra i miei occhi. Sento una forte spinta che mi sposta all’indietro, le gambe cedono, la testa s’inclina verso il cielo e cado.
Il calore sulla fronte è insopportabile ed in pieno contrasto col freddo del cemento sulla schiena; la pioggia cade rumorosa sulla mia faccia rossa portandomi direttamente in bocca un liquido rosso che puzza e pizzica e appiccica; in lontananza una signora dal cappotto giallo corre verso la fermata dell’autobus, un bambino saltella sotto un ombrello viola, un cane alza una zampa lasciando le altre tre immobili sul prato verde, con aria beata. Io respiro, semplicemente.
“Toccato”.
La sua voce è calma; il suo viso impassibile, ma soddisfatto.
“Dove ho sbagliato?” chiedo inquieto alle nuvole mentre la sua mano si allunga verso di me, come un pilastro, un punto fermo. Oggi c’è, ieri c’era e so che anche domani sarà lì ad aspettarmi.
“Sei ancora troppo prevedibile amico mio“, mi alza e mi abbraccia.
“Domani il cattivo lo fai tu, così ti insegno come seminare un poliziotto!“. Il suo orgoglio è enorme nel pronunciare queste parole.
“Va bene, ma sono certo che domani vincerò io! A proposito, che diavolo hai messo in quella pistola? Ketchup?“.
“Ketchup, sì, con un po’ di curry e tre gocce di olio tartufato“.
“Dai, così non vale! Maledetto! La prossima volta ti stendo con un soffritto di cipolla e aglio!“. Sorrido, lo guardo dritto negli occhi e penso a cosa farei se non ci fosse lui.
“Andiamo và, sta per suonare la campanella e siamo già in ritardo. Sei pronto per il test di matematica?”. I vestiti bagnati, il viso rosso e molestato.
“Certo, e tu?“. Sorride.
“Ovvio!“.

venerdì 18 febbraio 2011

Incondizionato e reciproco


Sono le otto. La cena è quasi pronta. Squilla il citofono.
“Sono arrivati”, dice papà.
Sono così felice quando sento quel suono: arriva quasi sempre qualcuno subito dopo a salutarmi. Ma a volte invece ne resto deluso; magari suona, qualcuno risponde e non succede nient’altro.
Ma oggi sì. Oggi arrivano gli zii e i cugini. Mi metto davanti alla porta. Aspetto. Ho troppa voglia di salutarli e di saltargli addosso e di baciarli e di annusarli e di toccarli. Fremo.
Toc toc.
Eccoli eccoli eccoli!
Papà apre la porta lentamente ed io mi intrufolo nell’unico spazio libero che mi lascia impedendo quasi anche al freddo di entrare. Saluto lo zio, la zia, il cugino e la cuginetta. Li scavalco tutti uno dopo l’altro fino all’ultimo, sovrastandoli completamente e poi torno al primo e lo saluto di nuovo e poi ancora il terzo e di nuovo il secondo senza tralasciare l’ennesimo saluto al quarto. Voglio subito tutta la loro attenzione. Amo la loro attenzione. Che profumi hanno. Che odore. Mi inebria. Per questo li adoro. I miei zii e cugini preferiti.
Si tolgono le giacche e papà le mette in camera da letto ed io resto solo con la famiglia.
“Ehi tu! Auguri signorina!!”, dice mio zio alla mamma.
“Ciao bellissimoooo”, dice la cuginetta a me.
“Vieni qui, fatti abbracciare, voglio stringerti forte. Mi sei mancato sai? Eh? Lo sai? Ma si che lo sai certo piccolo mostro”, mi scompiglia tutto ogni volta che mi abbraccia. La adoro. E sì, mi è mancata anche lei. Moltissimo. Amo quando mi chiama piccolo mostro. Amo.
“Ah, ma quale signorina e signorina; ormai cado a pezzi giorno dopo giorno, ma sono ancora qui e sai bene che non ho intenzione di andarmene; nossignore!”; la mamma ha sessantasette anni e dice di portarseli male, ma io credo che si sbagli. Io penso che lei sia una delle signore anziane più giovanili che conosco! Ma forse sono un po’ di parte. Ha tutta una serie di acciacchi poverina, mi fa tanta tenerezza, ma io ne faccio tanta a lei, quindi siamo pari. Non mi vergogno mai di esprimere ciò che provo, è la mia natura, anche se lo faccio più fisicamente che verbalmente, non reprimo mai; se c’è da arrabbiarsi tiro fuori i denti, se c’è da gioire salto come un mandrillo e se sono triste mi metto in un angolo da solo e me ne sto buono buono in silenzio.
Vedo lo zio abbracciare la mamma e non posso fare a meno di staccarmi dalle coccole della cugina e unirmi a loro. Amo gli abbracci di gruppo anche se non mi vengono benissimo; riesco sempre a restarne leggermente tagliato fuori. Ma me li godo lo stesso e mi godo questo, ora. Quanto calore. Quanta gioia.
Terminate le effusioni d’amore è ora di mangiare. Il menù è melodia pura. Tagliatelle al forno con tanta mozzarella filante accostate ad un buon Cabernet d’annata; di secondo la mamma ha preparato pollo al sugo, ma non un pollo al sugo qualsiasi, no! Il suo pollo al sugo! È strepitoso! Solo gli odori che echeggiano nell’aria mi fanno inondare la bocca di saliva e vorrei subito saltare sul piatto e sbranarmi tutto in un boccone per poi ricominciare d’accapo senza tregua. Vorrei chiudermi il buco nello stomaco voracemente e poi gustarmi ogni sapore e ogni delizia che le sue mani sono in grado di creare. Ma non posso. Non posso mangiare queste cose, queste prelibatezze; mi fanno male. Devo seguire una dieta particolare studiata apposta per il mio povero stomaco ribelle. Solo ogni tanto ho l’onore di mangiarle. E credo proprio che stasera sia la sera giusta! Non vedo l’ora!!
La cena prosegue magnificamente con risate racconti aneddoti forchettate bicchieri di vino e di Coca Cola; io ho già finito di mangiare e osservo; amo, adoro osservare; tutto, compreso i dettagli. Ad esempio mi piace vedere come mamma alzi gli occhi al soffitto ogni volta che ingoia; un attimo solo, ma lo fa; sembra quasi voler ringraziare il cielo per poter godere di tanto sapore. Papà invece prima di bere un sorso di vino lo annusa da vicino, sempre; chissà a cosa pensa quando lo fa. Lo zio invece, ah lui è un genio: mastica qualcosa come quarantasette volte virgola nove ogni boccone che deve ingoiare! Ma come fa? Io quando ho fame… divoro tutto in un nanosecondo!
È il mio turno. Sì! Meraviglia delle meraviglie vieni a me! Una manciata di tagliatelle. Gnam. Divoro. Un’intera coscia di pollo al sugo! Gnam. Divoro. Grande, grande festa oggi. In un attimo è tutto finito, ma ragazzi, che sensazione, che oblio queste portate.
Dopo la frutta, che non amo alla follia, ma se c’è non la rifiuto di certo, arriva il dolce. Apriti cielo! Torta Sacher. Si può immaginare qualcosa al mondo di più sfizioso? No. Non io. Non c’è nulla che mi faccia lacrimare gli occhi più di una torta di Sacher. La marmellata all’interno è oro colato; il cioccolato poi, santo cielo! Prego che me ne concedano una fettina minuscola; anche solo una leccata di dito! Sarebbe uno dei giorni più belli di tutta la mia vita.
Mangiano, mangiano, mangiano tutti. E la mangiano tutta. Mi avvicino alla mamma, le faccio gli occhi tristi e dolci come quella torta; lei mi vede; mi ama troppo la mamma per restare indifferente a questi miei occhi rossi e gonfi che chiedono pietà e implorano paradiso.
Eccola, la vedo che passa l’indice sul piatto e tira su un po’ di cioccolato. Che carina che sei mamma!! Hai preso persino un angolo di marmellata. Ti amo. Allunga la mano verso di me.
“Goditelo amore mio. Goditelo.”
Oh sì, mamma, questo sì. Apro la bocca; aspetto; ma sono in fermento; sono agitato; emozionato; non capisco più niente, perché aspetta a darmelo? Voglio gustarmelo, adesso!
“Ah ah! Seduto!”. Ma come seduto? Andiamo mamma!!
“Seduto!”, ripete categorica.
Ok. Ok. Seduto.
Appoggio il sedere a terra.
“Piano, fai piano…”, questa volta il tono è dolce, delicato, proprio come il sapore che la mia lingua percepisce appena il suo dito entra in questa mia enorme galleria gustativa.
Buono. Impareggiabile. Sublime.
Una delle serate più belle della mia esistenza.
“Bravo Willy, bravo amore della mamma”. Mi fa una carezza tenera sulla testa, si china, mi da un bacio sul naso e mi stringe forte la testa come a dire… quanto ti voglio bene?!
Poi mi guarda dritto negli occhi, mi porge il palmo della mano e dice:
“Dammi la zampa tesoro; su, dammi la zampa…”. Ha gli occhi più belli che io abbia mai visto e il sorriso più sincero che io possa mai desiderare.
Certo mamma. Te la meriti davvero.
Poggio la zampa sulla sua mano e scodinzolo felice.
“Bravo cagnolino. Bravo.”

giovedì 17 febbraio 2011

Peccato che i post più vecchi spariscano nel quasi nulla di un muro invisibile......

dovrei proporli di nuovo???

Questo mondo di blublablablog è strano!! le parole vanno e vengono come fiumi invisibili di respiri plasmati e poi sperperati senza tregua e senza colpa.
Io invece resto qui, fino alla fine, fino all'ultima riga, fino all'ultima goccia di inchiostro inesauribile di una tastiera che chieda pietà Dani, pietà!!
Non è colpa mia se mi hanno tolto carta e penna sai; li ho ancora  certo, li nascondo al mondo intero, ma sono qui, amo dirtelo voglio restare insieme a te ad ogni costo, ad ogni costo!
non ti ho tradita, ho solo cambiato faccia. ho solo ..passo al di là del muro!!

sogni di stylo.

Il prato dei vincenti

Questo racconto l'ho scritto su una panchina al parco sempione di Milano.
Volevo trasmettere qualcosa di particolare, di profondo. L'amore.




Seduto comodo su una panchina del parco, respiro tranquillo l’aria inquinata di questa città. Gli alberi sono ormai fioriti e l’erba comincia a crescere a vista d’occhio; i pioppi corrono felici a far starnutire i tristi allergici che passeggiano pensierosi, calpestando marciapiedi sporchi e pieni di cartacce che svolazzano senza meta, trascinate da un vento tiepido che gioca e si diverte coi capelli biondi, mori e rossi delle donne che vagano per la città, facendoli fluttuare nel vuoto inseguiti dalle foglie, che fanno a gara per restare il più a lungo possibile a volare, libere, leggere, felici.
Il cielo è azzurro, lassù in alto e qualche piccola nuvola trascorre il suo tempo movendosi lenta e indecisa sotto il volo rapido, tempestoso, affascinante e rumoroso di aerei di linea pieni zeppi di viaggiatori stressati, hostess e steward dal falso sorriso rassicurante e piloti così stufi della vita sulla terra, da rischiare ogni giorno la pelle, elevandosi ad altezze un tempo inimmaginabili perfino per le menti più folli e più fantasiose in circolazione. Senza lasciare tracce, i visitatori di questo parco attraversano le poche stradine asfaltate con estrema leggerezza, ognuno preso dai suoi pensieri o dalle chiacchierate amorose o dagli sguardi ammiccanti e sensuali; ognuno con la sua storia alle spalle, già vissuta e altre mille negli occhi ancora da vivere, fin’ora solo sognate; tutti apparentemente normali, persone sane di corpo e di mente, con esperienze e segreti che, probabilmente, io non saprò mai. Storie di sicuro interessanti, che mi piacerebbe sentir raccontare, ascoltandone le sfumature, gli inizi, i risvolti e la fine, bella o brutta che sia, sorprendendomi di tanto in tanto, commovendomi per qualche bel particolare, ammirando gli occhi lucidi del narratore. Ma non ora.
Davanti a me, seduto con lo sguardo fisso nel vuoto, le mani rugose dimenticate su delle ginocchia stanche, la schiena leggermente inarcata, i piedi un po’ storti con le punte delle scarpe vecchie, che convergono verso il centro formando un triangolo, quasi fino a toccarsi, un tenero vecchietto sta aspettando il tramonto; sta attendendo il buio e con lui, la fine di un altro giorno; ventiquattro ore che per l’anziano uomo, nella sua testa, devono essere estremamente lunghe, o estremamente corte. Bisognerebbe poterglielo chiedere ma, ormai, non è più in grado di rispondere, né di capire e questa è una gran perdita.
Ne ho incontrati tanti nella vita, di vecchi chiacchieroni; quando iniziano a parlare del loro passato, è difficile frenargli la lingua, la voglia di esprimersi, di condividere, di ricordare; la smania di raccontare e di farsi conoscere, il desiderio di tornare indietro, di rivivere le corse, i giochi, gli accoppiamenti focosi, ma anche solo le camminate a passo leggero, i pranzi tra amici gustati con disinvoltura e le sane bevute senza preoccupazioni. Lui non è diverso da tutte queste persone. Lui narra delle sue avventure andate, esattamente come gli altri, con la stessa emozione negli occhi, con la stessa enfasi, con lo stesso tremolio nelle mani.

Sai figliolo, quando ero giovane io… queste cose non succedevano…. Le ragazze di oggi sono tutte scostumate…… vanno in giro come fossero sempre in spiaggia…… mostrando a tutti il deretano e ciò che dovrebbe coprirlo, che ovviamente, non lo fa. Una volta prima di potersi baciare… bisognava assicurarsi di essere brave persone, sai…dovevi vestirti bene per far la corte alle ragazze…dovevi essere educato…e loro lo stesso!…una volta…un uomo mi disse che dovevo trovare una brava donna con cui vivere tuuuutta la vita…che dovevo trovare qualcuna di veramente speciale… che ci avrebbe pensato lei a me…alla mia vita..a farmi da mangiare…a darmi da bere…e a mantenere viva la mia vita…non so se mi spiego. Ah…ma adesso…si credono tutti già grandi anche quando sono solo dei ragazzini…e fanno i bulli per strada…non hanno rispetto per noi…non hanno rispetto per niente… se solo avessero visto quello che hanno visto i miei occhi in guerra…tratterebbero meglio la loro vita, ragazzo…te lo dico io. Non starebbero tutto il giorno a fumare e a bere senza studiare e senza rispettare il prossimo. Oh si…oggi…è tutto diverso da allora.

Guardarlo seduto su quella panchina, abbandonato da tutti, abbandonato quasi dalla vita stessa, mi rende triste la giornata, malinconica; ma non oso alzarmi; non oso andar via, allontanarmi da quel viso, da quelle rughe, da quella pelle scura e stanca; voglio solo star lì a sforzarmi di leggere i suoi pensieri, a sperar di poter vivere i suoi ricordi, le sue emozioni.
Condividere; amare; rispettare.
Il sole gli illumina il lato sinistro del volto rendendoglielo incredibilmente più giovane, più sano, più vivo; un leggero vento si sposta a passo lento tra i suoi capelli bianchi ondeggiando come un mare al tramonto, mentre la sua mano sinistra trema sotto i colpi blandi, ma continui di spasmi muscolari. Decine di persone gli passano davanti, senza nemmeno notarlo; dozzine, tra uomini e donne, che transitano d’innanzi agli occhi di un anziano seduto su una panchina in un parco, senza che lui, nemmeno le noti. Che bello sarebbe, che gioia proverei se anche uno solo di questi sconosciuti si fermasse un misero secondo, sedendosi accanto a lui, chiedendogli come va, come stà; se uno di  questi conosciuti mai, rubasse alla sua stessa vita due singoli e tanto preziosi attimi, per regalarli a quel vecchietto tanto tenero, tanto solo e, forse, tanto triste; sarebbe bello unirsi a loro e stimolare discorsi incredibili ed improbabili, ascoltare con ammirazione e sorridere delle parole volate via da quelle labbra secche.
                                                                                                                        Quand’ero sotto le armi… mi hanno mandato a Pisa sai…si…a fare la guardia…ah…era pesante ragazzo mio…tutta la notte fermo immobile davanti a un portone senza poter nemmeno pisciare..e poi… è arrivata la guerra..oh…come avrei voluto poter stare sempre lì…davanti a quel portone…ma ho dovuto servire il mio paese. Si. Quanti giovani ragazzi ho visto morire. Saltati sotto i colpi di mortaie… molti erano appena maggiorenni…e guarda adesso…vanno a ballare…si drogano…e muoiono per strada nelle stragi del sabato sera… che ingrati.
Ma tu figliolo…tu sei diverso…oh si..io lo vedo…che sei un bravo ragazzo…non…non ti droghi tu di sera, vero?? Sta bene attento a quella roba ragazzo…quelle schifezze uccidono la gente…e tu lo sai..

Osservo il flusso continuo di corpi vivi muoversi tutt’intorno a me, ne ascolto le energie, ne capto i battiti, ne studio i movimenti, ne percepisco gioie e dolori e penso che un giorno, tanto tempo fa, persino lui era così vivo, così sano, così giovane. Mi ritrovo a chiedermi che fine faranno tutti questi corpi che transitano leggeri tra la mia panchina e la sua; mi domando se diventerò mai come lui; se prenderò mai il suo posto; se diventerò anch’io uno scheletro nel parco che aspetta ansioso una triste e lenta decomposizione, portata dall’ennesimo tramonto; mi chiedo quando…  quando, io?
I suoi occhi sono fermi, anche se sembrano perennemente in movimento, come un’enorme tempesta nel deserto; le pupille si allargano e si stringono in un movimento perpetuo che ricorda un po’ le incessanti onde del mare che inseguono le risacche, in un gioco infinito di venti e di riflessi.
Forse non mi vede, anche se guarda dritto verso di me, creando un incontro, forse inconsapevole, di iridi al cioccolato.
Forse, forse non mi vedono, ma sono sicuro che quegli occhi parlano ed è come se ora, in questo preciso istante, col vento che soffia e i pennuti che cantano, stessero raccontando; raccontando di sé.

Quando l’ ho conosciuta… la mia vita è cambiata… radicalmente sai… oh sì… lei… lei mi ha insegnato tutto… mi ha insegnato a vivere… era una gran ragazza… lo era… ed è diventata una gran donna… lo è diventata. Era quasi perfetta sai… parlava tre lingue… sapeva cucinare… bene… sapeva ballare… era bella… aveva carattere… sapeva ciò che voleva e come ottenerlo…e tutte queste cose… ha cercato di insegnarle a me… di trasmetterle a me… per tutta la vita… persino sul letto di morte… con gli occhi socchiusi e le labbra  tremanti.
Per me era sempre bellissima… era sempre mia moglie… la mia amata… mi manca sai… mi manca ogni giorno… ogni mattina col letto mezzo freddo… ogni pranzo con una forchetta ed un coltello… ogni sera a cantar da solo,  sulle dolci note di Barry White… ogni notte… ogni… notte. Ma lei c’è… so che è qui… la sento… la sento forte… è il suo ultimo regalo per me… da lassù… mi accarezza… mi accudisce… mi aspetta… senza fretta… senza tempo.
Sorrido, sai… ogni volta che ne sento la mancanza… io sorrido..e questo… è il mio ultimo regalo per lei..

Mi sembra di sentirlo. Raccontare… raccontare come un tempo era bravissimo a fare, gesticolando, marcando bene la prima o le ultime sillabe delle parole chiave della storia… sì, perché era la sua storia e ci teneva tanto a narrarla bene; ad essere ascoltato; ad essere capito. E ora guardalo, lì da solo su quella panchina in mezzo ad un parco, pieno di amore ad attendere il crepuscolo, senza fretta, senza tempo, senza gioia, senza vita… apparentemente.
Solo.
Il vento si alza e la polvere con lui; le foglie ballano e cantano gioiose della loro estate; gli uccellini volano e si uniscono al coro, ed io… io mi rimbocco le maniche che non indosso, faccio cinque passi con lo sguardo fisso nel suo, mi avvicino, gli accarezzo la guancia, rabbrividisco al contatto con tante rughe tremanti e, dolcemente, faccio la mia personalissima parte. Lo sconosciuto. Lo sconosciuto numero uno.
   < Ehi?… è ora di andare a casa, sai? È ora di tornare.>
Il suo sguardo assente mi osserva senza temere, senza indugiare. La sua mano debole e magra si appoggia dolce alla mia, stranamente forte e sicura. I suoi polmoni stanchi respirano ancora, ancora aria, e il suo cuore, si affida al mio.
   < Dove andiamo, ragazzo?… dove andiamo, ragazzo?… dove…? >.
Il mio animo si riempie di lacrime, tenero e selvaggio allo stesso tempo. La mia mano stringe forte, con fermezza e naturalezza.
   < Andiamo a casa! >.
Migliaia di ore son trascorse oggi nella sua vita; pochissimi secondi, forse, nella sua testa; s’incammina lento, zoppicando un pò, senza lamentarsi, senza dire niente, senza fare domande. È un uomo forte lui. Ha fatto la guerra. Ha vissuto la vita. E me l’ ha raccontata. È un uomo forte, lui.. e si fida di me. Si fida di me.
   < Ti amo, sai?… nonno, ti amo. >
Il crepuscolo ci abbraccia, gli uccelli tornano a cantare, il vento corre accanto a noi, portandosi dietro voci, grida, storie, racconti, sussurri… segreti; lei aspetta, senza fretta, senza tempo; lui sorride, ed io… io lo guardo, ricambio il sorriso e con il dito gli asciugo l’ennesima lacrima che va giù, come sabbia che scivola triste sulla sagoma di un pallone da spiaggia, dolcemente, piano, piano.
          

mercoledì 16 febbraio 2011

Ho smesso.



Ho smesso di piangere.
Non so bene perché, forse perché di tempo ne è trascorso, forse perché poi alla fine tutto si accetta, in un modo o nell’altro; o forse solo perché dentro, nella profondità dei miei occhi, non ho più lacrime da riversare a terra, da veder rotolare sulle mie guance, da assaggiare con la punta della lingua, da gustare salate sulle papille. Non lo so. Ma ho smesso di piangere.
È stata una sorpresa: mi sono svegliato stanotte, come tutte le notti, quando fuori è buio e dentro lo è anche di più, e semplicemente non ho pianto. Ne sono rimasto sconvolto. Era diventata un’abitudine ormai, una specie di brutto passatempo, un bisogno irrefrenabile; un rituale imperfetto. Le lacrime  mi erano ormai amiche, come sorelle; quanto tempo è passato? Quanto? Troppo.
Ho smesso di piangere.
Mi sono guardato allo specchio dopo esser sceso dal letto; ho visto una faccia stanca, provata, distrutta dal dolore e dal tempo che sale un Maserati e fa rombare il motore sotto il cofano. Ho guardato due occhi rossi e gonfi, le ciglia appiccicate l’una all’altra come la sabbia sui piedi bagnati d’estate. Ho continuato a fissare questo specchio che rifletteva me che non ero più il vecchio me e nemmeno il nuovo me a cui ero abituato; ho percepito un sollievo da qualche parte nel lato destro del cervello, ho sentito una leggerezza, un qualcosa che volava via; forse il dolore che lasciava il posto alla consapevole rassegnazione. Forse solo il suo spirito che volava via dai miei pensieri.
Quel giorno, il giorno in cui lei è morta, sono morto anche io e ora, oggi, stanotte, sono rinato. Sembra sia una cosa possibile, sembra che ci si possa riuscire.
Ho smesso di piangere.
Esco dico faccio disfo ribadisco corro gioco leggo medito scrivo mangio rido. Rido. Perché ho smesso di piangere. Rido perché ho finalmente qualcosa per cui ridere. Perché mi sento libero di farlo. Rido perché credo ancora nella vita e in me e in lei e in tutto il mondo. E allora faccio le capriole salto la corda giro i pedali della bicicletta preparo gli spaghetti dormo come un bimbo ascolto Battisti e penso e osservo e parlo con me stesso e dialogo coi fiori. Ho smesso, oggi.
Quell’aereo non sarebbe dovuto partire quel giorno; non avrebbe dovuto volare e volere; volere la sua morte, volere la morte di così tante persone. Ma l’ha fatto. Ecco. L’ha fatto. Perché? Ho capito che non lo voglio sapere, oggi. Non più.
Ho smesso di piangere, oggi. Sono uscito, oggi. Ho preso la metro, oggi. Sono sceso in Duomo, oggi. Ho camminato, oggi. Sono andato in quel negozio, oggi. Ho parlato con Marta la tatuatrice, oggi. Mi sto facendo un tatuaggio, ora.
Ho smesso di piangere, da ora e per sempre. Guardo la scritta crearsi dal nulla sulla mia pelle, è magnifico.
Ho.
Sento un dolore forte ma allo stesso tempo sopportabile.
Smesso.
Sento il cuore vincere una battaglia nella gabbia del leone, dentro di me, con le unghie e con i denti.
Di.
Guardo il viso di Marta, mi ricorda il suo volto, stesso taglio di occhi, stesso naso, stesso sorriso.
Piangere.
Sorrido con Marta e annuso nell’aria l’odore di inchiostro fresco; mi solletica l’anima e mi dona gioia.
Ho smesso di piangere.
Mi alzo dal lettino un po’ stordito dal dolore e dal caldo; mi avvicino allo specchio; sento un aereo urlare il mio nome dal cielo di Milano; percepisco un leggero retrogusto di menta nella mia saliva; guardo al contrario il mio petto nudo nello specchio; la scritta gonfia e macchiata se ne sta lì a fissarmi e sorridermi.

È strano; perché a guardarla, ora, in piedi di fronte a me stesso e ad un cuore che ha quattro nuove parole, mi viene quasi da piangere.

Autoreggenti e palloncini

Esercizio corso di scrittura creativa.
Tema: come passa il Natale una prostituta?
Nella mia fantasia di un mondo un pò più bello, ma solo leggermente, lo passa così.

Musica di: Police. Video di: George Michael.



                                              Autoreggenti e palloncini

Odio il Natale, oggi. Soprattutto la vigilia di Natale, oggi. Alzarsi dal letto è difficile, apro gli occhi, la luce che mi ha svegliata arriva dalla finestra del bagno, devo aver dimenticato la porta aperta come sempre; sul soffitto la solita crepa a forma di diamante mi dà il suo personale buongiorno, ricordandomi perché faccio quello che faccio. Un rantolo pieno di odio sfugge dalle mie labbra. Silenzioso, un palloncino a forma di giraffa, osserva il mio perfetto corpo maltrattato. Mi siedo sul letto con le gambe a penzoloni, guardandomi i piedi, gonfi e rovinati dalle scarpe troppo strette; il dito medio è da rismaltare, penso distrattamente, poi mi alzo osservando i vestiti sul pavimento; top, minigonne, reggiseni di pizzo, tanga leopardati, calze rotte, pellicce finte. Prendo una sigaretta dalla borsa e mi soffermo un attimo sulla scatola di preservativi colorati ed il naso da pagliaccio che mi regalò Sara da bambina, quando ancora eravamo unite, quando ancora avevo una sorella.
Ho sonno. Raccolgo i soldi dalle lenzuola; li osservo con occhi gonfi e rossi, li annuso come fossero gigli profumati, li strofino sulla pelle ruvida, stanca e rovinata dal freddo. Nello specchio un ghigno diabolico mi fissa come fossi una sconosciuta, additandomi, forse, giudicandomi.
“Che cazzo guardi sgualdrina?”
Mi gira un po’ la testa e mi tremano le mani, ho una strana sensazione oggi, brutta.

Sono le due di notte e ho già avuto la bellezza di undici clienti, è una notte redditizia, ci son un sacco di porci maniaci in giro a Natale. Domattina mi farò un bel regalino.
“Ehi… come ti chiami?”
“Sally… e tu tesoro?”
“Sally… quanto vuoi, Sally?”
Apro lo sportello. Salgo. Guardo il falò acceso accanto al marciapiede, la lattina di cocacola schiacciata, i mozziconi sporchi di rossetto e fango. Chiudo; il fuoco perde una tonalità, la lattina diventa più piccola, le sigarette scompaiono nell’oscurità di un vicolo indecoroso; il mio preferito. Questa macchina puzza, di formaggio, forse, o di muffa; la radio è accesa e, cantando, parla con me; dice:
“Roxanne, you don’t have to put on the red light, Roxanne, You don't have to sell your body to the night“. Fisso le palline marroni del rosario pendente dallo specchietto mentre la sua mano si poggia sulla mia coscia; you don’t have to wear the dress tonight; già, non dovrei. Dovrei sputargli in faccia e andarmene a casa.
Il riscaldamento non funziona, oppure questo schifo d’uomo non crede sia il caso di accenderlo.
“Allora Sally, da dove vogliamo cominciare?“
Non vogliamo, non vogliamo affatto; desidero solo un bagno caldo, bollente, con tanta schiuma e un buon profumo di muschio bianco; magari con un calice di Merlot in mano e le dolci melodie di Chopin in sottofondo, sarebbe stupendo, già. Sarebbe Natale.
Il condom lo offro io, come sempre, walk the streets for money è il mio lavoro; lui offrirà solo vergogna e fastidio e puzza, come tutti gli altri ma you don’t care if it’s wrong or if it’s right. Stringo i denti, tra mezz’ora sarò a casa.

I vetri appannati dai respiri animaleschi di un mostro natalizio celano al mondo una violenza inutile ed ingiustificata; sotto la forza dei pugni il freddo sembra quasi svanire; quelle palline marroni appese allo specchietto retrovisore sembrano danzare felici e spensierate, seguendo un ritmo aspro di colpi di ventre e mani ghiacciate su un viso livido ed impotente, mentre i miei occhi maledicono quella croce.
Autoreggenti timide. Reggiseno malinconico: Tanga leopardato con la coda tra le gambe. Un rossetto a tre corsie su una faccia a senso unico.

La portiera si apre senza voglia,
ne esce un corpo senza gioia.
Cade triste sul cemento
sguardo fisso ascolta il vento.
Delle urla in lontananza
aspettando l’ambulanza,
è natale da tre ore
però ancora batte il cuore.
Però ancora… batte il cuore.

Quanto è lunga una giornata? Quanto può essere stancante? Dipende da come la vivi, da cosa fai, da quanti anni hai, dalle aspettative, da come avevi previsto che sarebbe andata. Oggi, nonostante tutto, sta andando bene, sono felice ed è un bel giorno. Amo il Natale, oggi, amo la gioia nei negozi, l’allegria sotto gli alberi e l’amore nei fiocchetti colorati. Amo poterlo trascorrere in ospedale, portare un pizzico di gioia dove manca e sentirmi ricambiata di un sorriso.
Mi dipingo la faccia di bianco, un sorriso giallo enorme, mi infilo il naso rosso, la parrucca dai grossi riccioli color fuoco, le lunghe scarpe marroni, i fiori nel taschino e i pantaloni a scacchi; il labbro mi si arriccia indispettito in una smorfia di dolore, passandomi il rossetto su un graffio che pulsa ma che, lo so, guarirà in pochi giorni. Mi piace travestirmi, specialmente in ospedale, alla luce del sole; soprattutto per i bimbi; mi fa sentire a casa, al sicuro.
Studio il mio viso allo specchio, controllo il colore, le rifiniture, i dettagli, amo i dettagli: una piccola lentiggine sul volto di una bambina mora, il mignolo corto di una mano da pianista, il blu di un semaforo verde. Sento il cuore sotto il reggiseno battere a ritmo di un notturno di Chopin che mi riempie i pensieri, sento il suono delle ambulanze che arrivano piene di tristezza, come ogni giorno.
Sorrido a me stessa, sorrido ad un clown.
Oggi sono di turno al reparto leucemia, qui i bimbi sono stanchi e sconfitti, qui io servo più che mai. Li guardo entrare nella stanza ricreativa, da lontano, trattengo il respiro sperando che rimangano dentro anche le lacrime; controllo i palloncini, i fiori e la trombetta; chiudo gli occhi un momento; visualizzo la gioia dentro di me; sono pronta.
Mi avvio verso di loro con una decina di denti birichini che sorridono ai muri bianchi.
“Ehi… come ti chiami?”. Le minuscole dita di una bambina dai lunghi capelli rossi si incollano curiose alla mia manica e facendo su e giù, per attirare un pizzico in più la mia attenzione, mi fanno sembrare un pagliaccio che trattiene a stento la voglia impetuosa di ballare.
“Sally… e tu tesoro?“
“Sally… me lo fai un dinosauro?“. Il suo viso, così innocente e furbo allo stesso tempo, mi ricorda la mia amata sorellina.
“Certo tesoro, ma solo se mi dici il tuo nome.“
“Mi chiamo Sara e il dinosauro lo vorrei rosso!“. Dolce quella pausa ogni due parole per prendere aria, tenera.
“Sei bellissima Sara, ecco tieni, il tuo dinasauro; buon Natale tesoro.“

E furono colori furono risate,
nasi rossi e mani argentate.
Furono lacrime furono sorrisi,
palloni gialli e fiordalisi.
Furono gioia furono speranza,
cravatte verdi e giri di danza.
Furono per sempre bambini felici
un reggicalze una giraffa ed un clown in bici.




martedì 15 febbraio 2011

Un pezzo di biografia.....


Mi piacerebbe dire pagina 15, ma, ahimè…

Che dire di questo viaggio? Cominciamo da:
Dove:
Africa, si ma l’Africa è grande! Dettagli?
Eritrea, Asmara, 2400 metri sul livello del mare,              
capitale, 580 mila abitanti, clima mite, sempre!
Quando:
Gennaio 2005, nel mezzo di un’emozionante carriera studentesca alla scuola di teatro di Milano; freddo, neve. Qui.
Perché:
Beh, qui si va sul personale: storia d’amore appena finita, tristezza deprimente, infinita voglia di scappare da tutto, anche da ciò che più amo e che più mi appassiona, dalla famiglia, dagli amici. Desiderio di riscatto, forse, bisogno di capire, imparare, adattarsi, soprattutto, senza dubbio!
Compagni di viaggio:
La zia Elena, qui, Hyman Isaac, lì. Mio cugino Luca, ovvio.
Durata del viaggio:
Un mese, 28 giorni girando parecchio, spaziando tra città libere e città occupate dai militari, visitando paesi costruiti con sacchi di riso griffati U.S.A. ed enormi canne di bambù, affiancati da pazzesche ville; bianche le mura, bianche le persone dietro le finestre. 28 lunghissimi giorni di fame, 28 brevissimi giorni di bellezza pura e semplice.
Durata del volo:
Ecco bravo, partiamo da qui. Il volo. Prendere un aereo e partire, salire su una cosa enorme che corre fino ad alzarsi e arrivare in cielo, in cielo, nulla sotto se non il vuoto, il vento, le nuvole e in fondo, lontano, il mondo, con tutte le sue storie, le sue sfaccettature e ovviamente le sue paure. 8 ore! 8 stramaledettissime ore.
Il mio primo volo. La prima volta che affronto la gravità e soprattutto le vertigini.
Ecco sì, di questo voglio parlare; le vertigini sono una cosa che nessuno, nessuno può assolutamente capire se non ne soffre. Nessuno. E lo ripeterò sempre, nessuno. Non puoi immaginare cosa provi il mio corpo, il mio cervello, il mio cuore; non puoi assolutamente percepire dentro di te il panico, limpido, brutale e misterioso che aggredisce il sistema nervoso di una persona che ne soffre. Non puoi.
Mio cugino, io lo amo, per me è un fratello, mi ha dato tanto ed ha sempre fatto parte di me, è vero, ma purtroppo per me e non molto per lui, ha le mani sporche del mio terrore dal giorno in cui per scherzo ha rischiato di farmi cadere dal balcone del settimo piano di un palazzo di quartiere Olmi.
E allora dai, descrivimi questo terrore.
Dimentica per un attimo il panico del primo volo, quindi l’attesa, la paura di mangiare prima del decollo, l’ansia del simpatico racconto di questa meravigliosa creatura africana che mi mostra cosa fare quando l’aereo cadrà; la paura nel sentire il rombo dei motori sotto il culo e vedere la pista correre sempre più veloce sotto l’ala, fuori dal finestrino. Pensa al cuore che diventa un martello pneumatico impazzito che scappa dalle mani di un muratore ubriaco, pensa al cervello che si schiaccia come un palloncino bucato che dal soffitto neanche troppo lentamente scende giù fino al pavimento; immagina 150 sedili con teste appoggiate che non fanno altro che girare come su una ruota panoramica, aggiungici il fastidio di dar di stomaco davanti a tutte queste facce. Sei solo ad un terzo di ciò che provo io quando sotto il culo non ho la mia dannatissima amata terra!

      

Fotografia




Che vuoi che ti dica? Che cerco di andare avanti?
Che vuoi che pensi? Che sono cresciuto ed è ora di andare avanti?
Che vuoi che faccia? Che non pensi più al passato?
Sai che ti dico? Guardo una vecchia foto!
Sai che penso? Che ho troppi anni!
Sai che faccio? Ricordo un bambino…
  
   che gioca spensierato, lo ricordo tutti i giorni: le corse, le gite, gli amici, la bicicletta, il Flick Flack.. mi manca quel bambino, ogni giorno di quest’avventura, ogni giorno di questa guerra; ogni sigaretta, ogni curva su quattro ruote, davanti ad una scuola, davanti ad un pallone, davanti a uno spinello!

Che vuoi che faccia? Non ti lascerò andare via! Non mi permetterò un’amnesia!

Tante cose son cambiate e tante altre cambieranno. Non l’ho amato quel bambino, non l’ho rispettato.
Aspetterò il figlio di quel bimbo, per amarlo, rispettarlo e farlo giocare col pallone. Lo porterò al mare e in montagna, puoi contarci,  a trovare il nonno e la nonna ed ogni giorno della sua vita, ogni calcio ad un pallone, ogni uscita dalla scuola, ogni farfalla che gli passerà vicino… farò una fotografia, per ricordarmi e fargli ricordare che ogni attimo è prezioso, che può essere per sempre se lo si desidera, perché la vita è un’aeroplano sulle nostre teste, in alto nel cielo.
Lo amerò perché la vita sembri un gioco per bambini, perché un giorno quei due bimbi guarderanno delle fotografie e rideranno spensierati  e con gli occhi dentro gli occhi, le mani nelle mani, i baci nei sorrisi, si ameranno per sempre mentre qualcuno gli farà una foto e la loro storia, non smetterà mai di vivere.

lunedì 14 febbraio 2011

Dom/andare

Ho Dom/ato la bestia.
sento il profumo della vittoria, qui, sotto il naso; lo annuso; è forte;.
Ho Dom/inato la prepotenza.
apro la bocca, assaggio, il suo sapore è delizioso.
Ho Dom/andato al cattivo.
perché vuoi rendermi come te?

Ho abbattuto la Dom/us nobile.
con un calcio nelle reni e un pugno dritto ai denti.
Ora sono soddisfatto del mio lavoro. Posso gioire della vittoria, posso godere del silenzio
posso gustarmi il mio Dom/inio.
Posso ridere e cantare perchè non è Dom/enica!!
buongiorno vittoria!!
brindo a te
Dom/solution

domenica 13 febbraio 2011

Old boy


                                                                                                              


Ricordo… ricordo che pioveva. Due bambini si tenevano per mano. Un bimbo e una bimba; erano biondi, avranno avuto 5 anni lui e 3 lei; correvano!
Ridevano sotto la pioggia con i loro k-way colorati e gli stivali in tinta gialla. Un uomo con l’ombrello imprecava contro coLui che crea la pioggia. Si era sporcato e bagnato lo smoking appena comprato. Era così nervoso che, incrociando i bambini, allegri e divertiti da questo affascinante fenomeno, imprecò anche contro di loro. La colpa dei ragazzini era di non avere problemi, né alcun tipo di pensiero negativo nei confronti della vita.
Povero uomo, bagnato, irritato e in ritardo; beati bimbi, con l’impermeabile da Arlecchino, bagnati, felici, con una vita intera ancora da scoprire.

Povero bimbo, cresciuto troppo in fretta con un padre troppo uomo, troppo ansioso di avere un uomo come figlio; troppo bagnato e imbronciato.

Beato uomo, cresciuto bagnato, che corre mano nella mano con un bimbo ed una bimba, col k-way colorato, che ride insieme a loro ammirando il cielo e sperando che quei bimbi restino bimbi per tutto il tempo che gli è concesso di restarlo.

Beato uomo/bimbo, bimbo/uomo che sa essere l’uno e l’altro a suo piacimento, che sa correre sotto la pioggia con lo smoking colorato e gli in stivali in tinta gialla.
Morirà uomo sì, morirà bambino… morirà felice e spensierato, col sorriso sulle labbra.
Morirà nel suo letto con le coperte di topolino e due fantastici bimbi/uomini che gli stringono la mano.
                                                                  
Ricordo… ricordo che pioveva. Due bambini si tenevano per mano. Un bimbo e una bimba; erano biondi, avranno avuto 5 anni lui e 3 lei; correvano!
Ridevano sotto la pioggia con i loro k-way colorati e gli stivali in tinta gialla. Un uomo con l’ombrello imprecava contro coLui che crea la pioggia. Si era sporcato e bagnato lo smoking appena comprato. Era così nervoso che, incrociando i bambini, allegri e divertiti da questo affascinante fenomeno, imprecò anche contro di loro. La colpa dei ragazzini era di non avere problemi, né alcun tipo di pensiero negativo nei confronti della vita.
Povero uomo, bagnato, irritato e in ritardo; beati bimbi, con l’impermeabile da Arlecchino, bagnati, felici, con una vita intera ancora da scoprire.

Povero bimbo, cresciuto troppo in fretta con un padre troppo uomo, troppo ansioso di avere un uomo come figlio; troppo bagnato e imbronciato.

Beato uomo, cresciuto bagnato, che corre mano nella mano con un bimbo ed una bimba, col k-way colorato, che ride insieme a loro ammirando il cielo e sperando che quei bimbi restino bimbi per tutto il tempo che gli è concesso di restarlo.

Beato uomo/bimbo, bimbo/uomo che sa essere l’uno e l’altro a suo piacimento, che sa correre sotto la pioggia con lo smoking colorato e gli in stivali in tinta gialla.
Morirà uomo sì, morirà bambino… morirà felice e spensierato, col sorriso sulle labbra.
Morirà nel suo letto con le coperte di topolino e due fantastici bimbi/uomini che gli stringono la mano.

sabato 12 febbraio 2011

Ehhhh già!!!

Eh già!!! Sembrava la fine del mondo ma sono ancora qua.. col cuore che batte più forte.. con l'anime che si arrende alla malinconia..al diavolo non si vende..ci vuole fantasia!!



 Non poteva mancare il Blasco!!