...fermiamoci ad osservare

mercoledì 2 febbraio 2011

02/02/2011

Questo video è meraviglioso..un'artista incredibile!! Mi sembrava potesse essere un buon accostamento
 a questo racconto... che ne pensate??


.Io mi fermo qui.    

Tutto intorno a me, aleggia un silenzio spettrale, angosciante. È notte fonda e anche oggi non riesco a dormire; non posso; la mia coscienza non me lo permette e temo si comporterà così per molto, molto tempo.
Fisso questo vuoto che mi abbraccia, quasi come fosse amico mio, che mi stringe forte a sé, un vuoto che dovrebbe proteggermi e cullarmi, che una volta lo faceva, con dolcezza e spensierata serenità e che ora invece, oggi, non si degna nemmeno di raccontarmi la favola della buona notte. Lo scruto cercando di percepirne l’energia, mentre ascolto il canto dolce di uccellini che dialogano liberi al di fuori di queste mura; creature magnifiche la cui voce per me, è sempre stata motivo di gioia, fin da bambino, quando me ne stavo per ore a guardarli, chiusi nella gabbietta in cucina, con cibo e acqua in abbondanza. Da quando papà me li aveva comprati, una domenica mattina, al mercatino settimanale del mio piccolo paese di provincia, tornato da scuola mi sedevo a terra a gambe incrociate, poggiavo il mento sulle mani stanche dai troppi compiti fatti su di un banco pieno zeppo di scritte e li ascoltavo cantare, convinto che il loro, fosse un canto di gioia; un inno alla felicità…la loro e la mia; pensavo che, essendo un maschietto e una femminuccia, si amassero e se lo dicessero tutto il giorno cinguettando qua e là; ed era bello pensarlo. Ma Dio sa quanto mi sbagliassi e ora lo so anch’io. “Libertà”, gridavano. “Libertà”.
Non ho modo di sapere che ore siano, non porto l’orologio al polso da non so più quanto; il tempo ormai si è trasformato; ora non è altro che un nemico, col fucile puntato dritto sulla mia nuca, pronto a sparare. Posso star sdraiato se voglio, o alzarmi; posso bere, o mangiare; posso saltare e mettermi a correre; cantare, ballare o andare a scaldare la tazza del cesso. A lui non importa e la mia testa sarà sempre nel suo mirino. Sempre.
Tra poche ora la luce dell’alba verrà ad infastidire le mie pupille stanche e assonnate, filtrando da una finestrella che non mi ha ancora mostrato lo splendido volto della luna; ma per questo, non c’è che aspettare. Il mirino è a fuoco e il colpo in canna. Aspettare dunque; aspettare. Quando i raggi verranno a tentar di illuminarmi il volto, lo troveranno stanco, sciupato, disidratato e triste; distrutto dai sensi di colpa e dalla pena. Ho così tanto tempo per pensare e per provare pena per me stesso; per ciò che ho fatto; per come mi sono ridotto; per quanto sono caduto in basso. Ho distrutto la mia vita. Così tante ore per assorbire la tristezza, per il male che ho procurato.
Non so da quanto vado avanti così; ogni giorno mi alzo, mangio quel che trovo, vado in bagno, piscio e caccio fuori lo schifo ingurgitato la sera prima, mi faccio la barba e inizio a lavorare; in mezzo a questa gentaglia, a queste persone che, come me, hanno buttato la loro vita nel cesso, rovinandola irrimediabilmente; aspetto che arrivi la sera e vado a letto, a non dormire, a soffrire dell’insonnia e degli incubi fatti ad occhi aperti; gli stessi che ora cercano una luce qualunque in questo buio pesto e che, tra poche ore, guarderanno centinaia di uomini mezzi morti, come me, camminare nei corridoi come zombie, alla ricerca di qualcosa ancore da capire, di qualcosa che non c’è più e che, forse, non tornerà mai. Trascorro la giornata come la maggior parte del resto del mondo, questo si, ma non vivo. Non vivo più.
Le emozioni che provo sono annebbiate dal manto pesante dei ricordi e del rimorso; si nascondono dall’albore di un giorno che è appena iniziato; là; là fuori. E proprio mentre cerco di pensare ad altro, che so, al mare, con la sua maestosità e le sue infinite specie di pesci colorati, al cielo azzurro sconfinato e al mistero delle sue nuvole, delle sue piogge, dei suoi fulmini, ai vulcani, ai campi di fiori, ai grattacieli, agli alianti e ai cavalli che corrono veloci nelle praterie… si accende la luce; i miei occhi vengono aggrediti da spilli lunghi e spessi, che scatenano temporali e tempeste elettriche nel cuore della mia testa, in un cervello che non ha più voglia di pensare e ragionare, né tanto meno di ricordare.
Quel maledetto rumore di legno rivestito sbattuto con forza sul metallo, non tarda ad arrivare, come tutte le fottutissime mattine ed io so che dovrò sentirlo per tutta la vita; per tutta questa vita che di certo non mi sento più in grado di chiamare vita.
Si aprono i cancelli; inizia la giornata; colazione.
Guardo i miei simili attraversare i corridoi come morti viventi, a testa bassa, piegati dalla vergogna… e piango.
Sento il rumore avvicinarsi sempre di più al mio letto, con la solita velocità e la solita intensità; socchiudo gli occhi e, attraverso il velo delle lacrime copiose, vedo la guardia col manganello che mi osserva mezzo stupito e mezzo arrabbiato, con alle spalle un fiume in piena di carne da macello, di morti che camminano, ancora vivi. Persone come me. Assassini come me.
Il poliziotto resta a fissarmi per qualche istante e il suo sguardo parla chiaro, grida chiaro, dice: Qualunque cosa ti abbia spinto a farlo, questo è ciò che meriti, la giusta punizione per chi uccide un essere umano.
Vorrebbe dirmelo, strillarmelo, vomitarmelo addosso, facendomi capire chi comanda, come se non lo sapessi più che bene, ma non può; non è compito suo. Apre la bocca per sputare le sue accuse e le sue sentenze, ma fa uscire solo un piccolo vortice di aria calda, che si disperde silenzioso nella stanza; stringe deciso il manganello dietro al quale si sente uomo e lo sbatte forte sulle sbarre della mia cella, di casa mia. Il mio esilio. Lo punta minaccioso verso di me e finalmente, parla.
Ehi tu! Che fai? Non mangi oggi? Non ti alzi? Non ti fai la barba?”.
Prendo aria riempiendo piano i miei polmoni affaticati, la boccata più lunga e più sofferta di tutta la mia esistenza, ripenso all’uomo che ha tentato di uccidere me e la donna che amo per rubare pochi soldi, con cui andare a comprarsi la droga in qualche vicolo sporco e puzzolente di questa bellissima città e che ha subìto poi la mia ira incontrollabile e la mia vendetta per avere fatto del male a lei.   Amore… vuoi sposarmi?
Mi lascio avvolgere dal pensiero straziante di aver perso la donna più bella al mondo e dalla sensazione umiliante di depressione profonda; incrocio le braccia e chiudo gli occhi.
No. Oggi no”.

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