...fermiamoci ad osservare

sabato 29 gennaio 2011

...che vorrei.


Non si può sorvolare le montagne, non puoi andare dove vorresti andare
Guarda un pò ci si deve accontentare. Qui si può solo perdere..
e alla fine non si perde neanche più...



La vita che vorrei.


Erano le 5, 0 minuti, 23 secondi del 1/1/5623 quando nacque….
Le 5, 0 minuti, 24 secondi del 1/1/5623…….quando morì.

Nasce piangendo giace in una culla. Muore ridendo e giace in una tomba.

Stringe la mano ad un genitore… ne trae saggezza,
Stringe la mano ad un bambino…gli regala saggezza.

Scrive centinaia di poesie su pagine completamente bianche,
Legge centinaia di poesie su pagine completamente bianche.

Balla il tango con donne bellissime immaginando una storia d’amore furibonda con ognuna di queste fantastiche creature,
Subito dopo vive storie d’amore furibonde con ognuna di queste fantastiche creature.

Nel periodo più felice dell’esistenza della persona a lui più lontana, dà e toglie la vita a suo piacimento, facendo il giocoliere matto in un circo chiamato Mondo dai manovali di quello stesso circo chiamato Mondo.

Ama con profonda tenerezza un sasso preso a calci da fantasmi in carne e ossa.

Osserva con intensa ammirazione migliaia di ragazze e donne sdraiate in ogni dove, dormienti_nude.

Vede un uomo, un fratello, uno sconosciuto; ad ognuno dona un soffio: un respiro! _scambio “folle” di energia.
Guarisce e salva l’UomoFratelloSconosciuto.

Rapina tutti i casinò della terra, compra un’isola deserta e col denaro ricavato, mostra fuoco e fiamme ai non suoi Dei.

Assiste impotente alla partita. Scacchi. Dio e Satana. Re contro Re.


Finché in un lampo sognò una vita.. lunga una vita e morendo, si svegliò, aprì gli occhi e visse un sogno.

giovedì 27 gennaio 2011

Amore disabile


                                                                   
Di una cattiveria che distrugge ogni speranza
Di una fame che si ciba di ogni cuore
Di una disperazione che è alla base, alla radice della follia, che rasenta l’innominabile
Di ogni cancro che divora questo mondo
Di veleno, siero malato e infallibile della serpe più acuta
Di escrementi, rifiuti organici dello schifo della mia terra
Del nero più nero del nero più profondo
Del male di ogni dove e di ogni quando
Delle pallottole e le lame più feroci e precise
Delle grida e degli strazi di ogni innocente……………. 
Mi vestirò……… mi riempirò……. Mi nutrirò.
Senza mai esserne sazio e senza mai provar rimorso
Nelle tenebre più fitte mi accovaccerò ………aspetterò
Aspetterò
E attaccherò
E sarò solo col mio dolore e la mia rabbia
Senza mai guardarmi indietro.

Di morte… della Madre di tutte le morti il mio corpo vernicerò, mimetizzato tra la gente.
Sceglierò… oh sì…sceglierò.
Vittime ignare e solitarie. Angeliche e demoniache. Vittime inutili e sacrificabili.
Finché il silenzio calerà e la notte brucerà e la terra, il cielo, i venti, i mari, i pianeti, le galassie e le formiche… piangeranno.
Lacrime vuote, piene di niente e colme di morte.   Lacrime rosse.   Lacrime vecchie.   Lacrime stanche.   Lacrime stolte.   Lacrime andate.
La cipolla del tormento si è sbucciata, strato dopo strato. Pianto dopo pianto. Lamento dopo lamento.
Di polvere alla polvere
Di cenere alla cenere
Di tutti i vermi del sottoterra più ruttale
Io mi vestirò.
Per dimenticare l’odio. Per scordare la rabbia. Per non avere più risposte e non conoscer più domande.
Epilogo tragico e beffardo di un sorriso sul mio volto. Venuto. Ammirato. Sparito.

martedì 25 gennaio 2011

Non mi ricordo che cosa devo ricordare

Oggi è una giornata strana; insomma, potrebbe benissimo essere ieri e io non lo saprei mai, neppure se fosse già domani; in fondo ieri è solo un ricordo, oggi anche, ho appena scritto la parola 'scritto' e già posso ricordarlo. Che presente è mai questo?? E se fosse domani, beh, credo che me lo ricorderei!! Perciò, che senso ha la mia memoria? Già, davvero voglio trovare un senso a questa sera? Anche se questa sera un senso non ce l'ha? O voglio solo trovare una domanda ad una risposta che ancora non so?
Non importa se è finita, quello che conta è che sia stata una splendida giornata!

     


.AI MARGINI DI UN PUNTO DI DOMANDA.


A che diavolo stavo pensando??? Proprio non lo so…  non mi ricordo. Sai che novità.
Sono qui, al buio che penso continuamente a qualcosa che non so cos’è, a qualcosa che mi sembra di pensare da sempre ma di non essere mai riuscito a focalizzare… ridicolo.
Cerco di ricordare, perché la sensazione che quella visione ormai dimenticata, mi lascia dentro è davvero emozionante e curiosa; mi sembra di conoscerla da una vita… ma allo stesso tempo sento che non è mia, che non è in me… che forse, non è mai stata in me!
Ascolto il silenzio che regna sovrano tutto intorno e un pensiero mi affiora nella mente; un pensiero che ho già pensato chissà dove, chissà quando, chissà perché… e mentre lo creo, sento che si cancella, che si annulla, che fa di tutto per annientare sé stesso, o forse me. Visualizzo la lavagna luminosa dei ricordi dove loro viaggiano senza ritmo, senza meta, senza tregua e mentre formulo il pensiero stesso del pensare ciò che sto pensando, nella lavagna luminosa della memoria vedo come il Nulla, che nero e veloce e devastante, arriva da lontano (o da vicino) e si mangia le parole dei miei ricordi; vedo le lettere sparire una dopo l’altra sino all’ultima, sino al punto finale, sino a raggiungere il presente del mio pensiero; torno al punto di partenza… a ciò che ero e a ciò che sono… ed è in quel preciso istante (consapevolezza?) che una forte luce si accende davanti a me (me? Io? …Chi?), forte sì, ma non fastidiosa, per niente, anzi, gradevole quasi al tatto; familiare, in fondo. Un bagliore che illumina uno specchio; vola libero davanti a me, sospeso, forse, tra realtà e finzione; lo guardo, lo osservo, lo studio. È bello, affascinante, travolgente… sono io.
Mi guardo nello specchio e ciò che vedo, non è di certo umano: non c’è un corpo in carne ed ossa riflesso in una stanza, non c’è un viso con occhi, denti e baci… ma un infinito Nulla nero al di là della cornice e milioni di parole bianche che splendenti nel buio, navigano libere, come particelle atomiche liberate nell’aria dopo un esplosione. Ognuna col suo ritmo viaggiano senza meta (senza senso) in quello spazio vuoto (pieno), si superano, si scavalcano, si scontrano, appaiono, scompaiono e poi riappaiono… in una danza bellissima di luce bianca contrastata dal buio fitto e denso dei miei pensieri.
Bianche sì, come la neve… che non ho mai visto, che non so cos’è, che non ho mai… vissuto.
Non sono Uomo, non sono Pelle, non sono Ossa; non sono Sangue.
Sono solo un ricordo, di tutto e di niente. Di bello e di brutto. Di  vivo e di morto. Solo.. un ..ricordo..
Il ricordo di qualcuno che, spero, ricorderà per sempre.

lunedì 24 gennaio 2011

Come alberi

Mettere radici.
In un mondo corrotto e distrutto dalla prepotenza e dalla malvagità.
Mettere radici.
In un prato diabolico e privo di sensibilità.
Mettere radici.
In una storia in cui la vita non è facile ma a volte basta un complice e tutto è già più semplice.
Mettere radici.
E se siamo solo noi a farlo...allora non voglio.
Mettere radici.

                     


.Come alberi.

Siccome avevo preso un altro brutto voto, mio padre mi disse:
“Va bene, allora oggi verrai con me a lavorare. Così vedrai come si fatica!”.
Mio padre faceva il giardiniere, e andava in giro per i giardini altrui. Andava a potar piante, rastrellare foglie e tagliare erba col suo potente tagliaerba.
Quel giorno doveva occuparsi niente meno del giardino dei terribili Lorchitruci.
I Lorchitruci erano la famiglia più ricca e potente della collina. A me facevano paura due cose di loro: il nome, perché mi veniva da pensare a degli orchi molti truci; e il giardino, appunto, perché era chiuso da una muraglia gigantesca dietro la quale chissà che cosa mai si nascondeva.
Dovetti accettare mio malgrado. Non avevo scelta. Lui era mio padre, era la legge, l’unica legge da quando mamma è salita in cielo. Me l’ero proprio meritato! Non potevo scappare!
In pochi minuti di religioso silenzio il vecchio furgone rosso ci portò fino a lì, davanti al cancello dei Lorchitruci. Si aprì. Una lunga strada polverosa ci accompagnò alla fontana che stava proprio nel centro di un enorme giardino; raffigurava un orso polare in piedi con la bocca spalancata, come se urlasse al vento la sua forza e il suo dominio assoluto. Le ruote del furgone alzavano il terriccio secco lasciando correre alle nostre spalle una scia marrone simile alla nebbia e, guardandomi indietro, notai che il cancello non si vedeva più, avvolto e ricoperto da questa nube; il tutto già mi risultava fin troppo lugubre. Un maggiordomo silenzioso se ne stava a fissarci da un gazebo con le braccia conserte, tenendo la mano destra nella manica sinistra e viceversa, come a volerle nascondere a tutti i costi. Era alto e aveva un viso completamente butterato; ricordava la gruviera, formaggio che avevo sempre odiato. La casa era gigantesca! Bellissima! Ma l’aria tutt’attorno era strana, una sensazione di disagio banchettava nella mia testa. Se ne sentivano tante su questa residenza, in paese. Chissa che almeno una di quelle storie non fosse vera!
La famiglia aveva promesso a mio padre un cospicuo risarcimento per i servigi, così ci mettemmo subito al lavoro; mentre scaricavo il furgone notai che la signora, padrona di casa, ci fissava dall’uscio, con indosso dei vestiti tremendamente lugubri e una lunga pelliccia marrone, nonostante il caldo quasi soffocante; era inquietante; fumava, ma il fumo non lo sputava fuori, lo ingoiava tutto, lo mangiava, lo divorava! Senza lasciarmi influenzare da quell’immagine disarmante, iniziai a potare parte delle siepi più piccole mentre mio padre falciava l’erba col potente LorchiCut, il tagliaerba che aveva inventato il signor Lorchitruci anni addietro e che, per loro fortuna, li aveva arricchiti quasi immediatamente, rendendoli la famiglia potente e temuta che ora sono.
Era passata circa un’ora da quando eravamo giunti alla villa e mio padre aveva ormai terminato di utilizzare il prestigioso macchinario. Il sole picchiava sulle nostre teste come una colata di olio bollente sulla pelle nuda. In tutto quel tempo, in silenzio, senza muovere nemmeno un muscolo, la vecchia donna dai capelli rosso fuoco, un terrificante rossetto nero in pandant con gli abiti e la pelle più bianca che avessi mai visto, aveva osservato il nostro lavoro avvinghiata alla sua amatissima pelliccia di chissà quale povera bestiolina, continuando ad aspirare boccate su boccate di veleno bianco. Il mio servizio era piuttosto irrisorio, un po’ perché non avevo voglia, un po’ perché faceva davvero un caldo infernale, un po’ e soprattutto, perché era per me la prima volta che mettevo mano alle forbici di papà. Così mi fece vedere lui, iniziando da quella che sembrava una vera e propria muraglia circolare di erba fitta dietro alla quale si nascondevano una serie di sagome, stranamente perfette, senza necessità di essere curate o potate; rappresentavano un uomo e un bambino; accanto a loro altri tre figure maschili se ne stavano lì coi loro rami sempre verdi, immobili; sembrava quasi che guardassero la casa, sempre, instancabilmente, perennemente, ossessivamente! Seguii con gli occhi la traiettoria del loro sguardo e mi ritrovai a fissare l’enorme edificio insieme a loro; mi accorsi immediatamente che dietro una tenda grigia, al piano di sopra, si nascondeva una bambina; ci osservava, come faceva la madre; solo che lei sorrideva e il suo era un sorriso che accecava; il sole rimbalzava come una palla da flipper sul suo apparecchio e rendeva quel sorriso davvero poco innocente, anzi, decisamente angosciante, sinistro.
“Che strano”, disse mio padre tirandomi fuori da una specie di brutto sogno in cui ero sprofondato, “queste statue d’erba sono l’unica cosa in questo giardino che non ha bisogno di ritocchi, sono perfette così come sono; sembra quasi che qualcuno abbia trovato il modo di renderle… semplicemente eterne! Bah! Senti figliolo, ho sete, perché non chiedi alla signora di farmi una bella limonata con ghiaccio? E cerca di essere gentile, per favore! Non farmi fare brutta figura”. Detto, fatto! Mi avviai subito verso la casa e con grande sorpresa mi accorsi che né la signora impellicciata né la figlia dal sorriso tetro erano più lì a fissarci. Non c’erano più; erano sparite nel nulla! Perfino il maggiordomo che ricordava vagamente Franchestein sembrava introvabile. Entrai in casa, con passo timido, indeciso; chiesi permesso; dissi a voce alta, ma allo stesso tempo tremante, che mio padre chiedeva gentilmente una limonata; non feci in tempo a finire la frase che la vidi, lì sul tavolo della cucina, in un grosso bicchiere con tanto, tanto ghiaccio, come se qualcuno avesse sentito. Non avevano perso tempo!
Stavo per uscire quando sentii una voce dietro di me; un bambino, grasso, basso, tozzo, coi capelli rossi e le lentiggini su tutta la faccia, vestito come se vivesse negli anni cinquanta, parlava da solo; in realtà dava l’impressione di interagire con qualcuno, ma, ovviamente, nella stanza non v’eravamo che io e lui!
“Hanno messo radici, hai visto? Sì, hanno messo radici! Bisogna tagliare il tronco, il tronco è la soluzione! Sì! Le radici! Sì, il tronco, il tronco, il tronco”; scuoteva la testa avanti e indietro, su e giù, come se fosse autistico. Mi faceva paura guardarlo e ascoltarlo dire quelle frasi senza senso come se fosse completamente matto.
“Grazie…”, balbettai ed uscii in fretta continuando a guardarmi le spalle, rovesciando parte della bevanda a terra. Facendo finta di non accorgermi della scia di gocce gialle che stavo lasciando sui miei passi, arrivai da papà e glielo raccontai, subito dopo avergli dato il bicchiere; era sudato come non mai; fece una lunga sorsata e si asciugò la bocca col dorso della mano; sospirò stanco e mi disse che quello era tutto matto, come probabilmente il resto della famiglia, ma che ci avrebbero pagato profumatamente quindi, gambe in spalla, sorrisetto stampato sulla faccia e buon viso a cattivo gioco! Il suo volto sotto i raggi prepotenti del sole sembrava più vecchio di dieci anni. Poi aggiunse “Ecco, lo vedi? Che razza di limonata è mai questa? Sa di… di concime! Che schifo! Assaggiala figliolo, dimmi se non ho ragione” e in effetti aveva davvero quel sapore, concime! Che schifo! Improvvisamente qualcosa si mosse nelle mie scarpe; qualcosa di molto appuntito; sentivo come se mi stessero uscendo degli aghi dalla pelle, bruciava da morire; aprii la bocca per gridare, istintivamente, ma mi bloccai quando vidi che le gambe di mio papà erano sparite. I jeans non c’erano più, le scarpe nemmeno; al loro posto due lunghi rami di legno pieni di foglie verdi, come quelle che stavamo tagliando, si gettavano nella terra fresca e fertile. I sassolini si spostavano sotto la pressione di forti radici che crescevano velocemente da quel punto dove due minuti prima c’erano le sue caviglie, diretti dritti dritti verso il cuore del mondo stesso. Mi sentii come di piombo; ancorato a terra; avevamo messo radici, le nostre gambe si stavano legando al terreno, e più i secondi passavano più i nostri arti scomparivano lasciando posto ai rami e alle foglie. In un attimo entrambi stavamo gridando dal dolore; il cuore mi impazziva nel petto come un martello pneumatico in mano ad un sadico maniaco. Il vento soffiava sulle nostre facce stordite dal bruciore infernale che ci travolgeva e davanti alla casa, la donna dai capelli rossi, la figlia con l’apparecchio e il sorriso sghignazzante e i vestiti del dopo guerra, il maggiordomo e il marito della signora, che era spuntato fuori dal nulla, ridevano, come pazzi indemoniati; le loro risa sembravano grida di gabbiani e insieme guaiti di cani feroci. Si contorcevano dalla felicità, fissandoci e additandoci come se fossimi giullari incapaci. Il maggiordomo aveva finalmente estratto le mani dalle maniche mostrando due grossi rami di albero che le sostituivano. Insieme a questo suono terribile e soffocante si udivano delle voci di uomini e di un bambino; chiedevano aiuto, gridavano, piangevano, sputavano inutili suppliche. Aiutateci! Siamo incollati..siamo incatenati..siamo…siamo…siamo alberi!! Aiuto!! Provenivano da quelle figure che prima ci erano sembrate semplici composizioni artistiche e che ora erano diventate voci strazianti, di persone agonizzanti ancorate al terreno con radici che nessuno sarebbe più riuscito a distruggere; potevamo sentirle e potevamo vederle; quel bimbo e quei quattro uomini fatti di erba, stavano gridando in preda al terrore, immobili ma con gli occhi che ancora roteavano fugaci nelle orbite e noi, stavamo per finire esattamente come loro!
In un turbine di follia e disperazione e di lacrime verdi, ripensai a mia madre e ai suoi bellissimi capelli rossi e a quelle tenere lentiggini che le tempestavano il viso rendendola unica, bella, solare; un momento… come un fulmine mi giunse il pensiero: le lentiggini, il bambino grasso, diceva, diceva..il tronco è la soluzione, la soluzione, la soluzione!
“Papà, papà dobbiamo liberarci prima di diventare come quelle persone laggiù! Papà, dobbiamo tagliare il tronco, il tronco papà, il tronco è la soluzione!! Ricordi?”. Non avevo più visto mio padre piangere dalla morte della mamma e ora se ne stava lì, in piedi, piantato a terra con un fiume verde che gli inondava il volto e le forbici in mano, fissandosi le gambe che una volta lo randevano uomo e che adesso lo avevano tramutato in un orrendo alberello che presto sarebbe stato un sempre verde della collezione di una famiglia di matti. Poco più in là, il ragazzino continuava il suo monologo sbattendo la testa sempre più forte mentre gli altri ridevano a crepapelle tenendosi la pancia e rotolandosi a terra.
Fu un attimo. Una forte pressione sul pollice e zac! Mio padre cadde a terra come una sequoia segata di netto, facendo un tonfo sordo e sinistro che avrei ricordato forse per tutta la vita; se avessi potuto osservare il punto preciso del taglio, avrei notato che c’erano quarantotto cerchi che partivano dal centro espandendosi verso l’esterno. Piangendo e urlando con gli occhi che cercavano in tutti i modi di andarsene indietro, a cercare quel buio che gli avrebbe regalato conforto e pace, si trascinò ai miei piediradice e con un forte colpo tranciò di netto il mio corpo. Sentii la vita scorrere via, veloce, determinata, impaurita. Le risa erano improvvisamente terminate e attorno a noi regnava sovrano il silenzio. Tutto si fece nero e poi i sensi se ne andarono, lasciandoci inermi su una terra di cui non facevamo finalmente più parte; giunse il sonno e come in un sogno arrivò portandosi dietro la voce stridula di quella vecchia arpia con la pelliccia:
“Questa volta avete vinto voi… ma non finisce qui, giardinieri! Non finisce qui!”. La sua risata finale fu il suono più terrificante che uomo possa mai immaginare.

Aprii gli occhi. La luce era forte, profonda, artificiale, quasi finta. Davanti a me, la sveglia diceva che erano le sette e trenta minuti. Il foglio col 4 in matematica mi fissava ammonitore, di un rosso accecante. Mi alzai. I piedi erano sporchi di terra come se avessi vagato tutta la notte nel bosco, scalzo. Impronte marroni percorrevano la strada che mi avrebbe portato in cucina dove mio padre, anch’egli con i piedi zozzi fino alle caviglie, stava pulendo con lo sguardo fisso nel vuoto. Un’inquietante sensazione mi rincorreva ad ogni passo, qualcosa di noto, qualcosa di molto simile ad un dejà-vu, ma molto, molto più reale, come se vagasse sotto la mia pelle, se scorresse libero nelle mie vene. Porsi il compito a mio padre che lo guardò in silenzio. Stette lì a fissarlo con gli occhi spenti, per qualche minuto.
Disse:
“Va bene, allora oggi verrai con me a lavorare. Così vedrai come si fatica!”.
Quelle parole, quel tono, quella specie di mancanza di emozione nella sua voce…lo guardai, mi persi nei suoi occhi verdi, mi sentivo in sintonia con lui, in simbiosi, come legati da un destino solo nostro. Un percorso solo nostro. Un futuro soltanto nostro.
“Che giardino devi sistemare oggi, papà?”…….
“Quello sulla collina…quello dei Lorchitruci”.

 


martedì 18 gennaio 2011

Bibo e Mimì


                                                              
Pioveva. Le gocce tiepide cadevano sulle loro teste simultaneamente solleticandone i capelli rossi, creando dei piccoli brividi tanto stuzzicanti; Bibo e sua sorella Mimì erano affascinati da tanto splendore. Davanti ai loro occhi Città del Mexico si estendeva senza freni, senza limiti, senza ostacoli. La madre stava parlando con degli agenti per farsi spiegare come raggiungere la piramide del Sole a Teotihucàn; diceva sempre che salire i 248 scalini che portano in cima ad essa sarebbe stata per loro una delle esperienze più belle di tutta la vita; una volta calpestato l’ultimo, la vista è meravigliosa e la sensazione di potere e di libertà, ineguagliabile! La terza piramide al mondo per dimensione! Era più felice lei dei bimbi all’idea di portarli in quel posto favoloso!
I fanciulli però erano stanchi, felici di essere in mezzo a tanto splendore, sì, ma stufi di aspettare lei che non capiva bene la lingua di questo popolo meraviglioso e che spendeva un sacco di tempo ad ascoltare le loro spiegazioni. Se ne stavano lì, mano nella mano, riparati sotto il tendone di un saloon che sembrava uscito da un libro di Gabriel Garcia Marquez, dove le donne non entrano, dove i machos si rifugiano a inzupparsi di tequila e di birra, osservavano il flusso costante di gente che attraversava senza tregua la seconda piazza più grande del mondo denominata ‘lo zocalo’, pavimentata nel 1500 con pietre di uno dei principali templi aztechi, dal conquistatore Cortès. Ammiravano lo splendore dei riflessi del sole che si posavano morbidi sui volti scuri di questa gente e pensavano alla voglia di correre in mezzo a loro, di giocare con le loro mani, di abbracciare i loro corpi piccoli e tanto teneri; erano bambini, non era così importante per loro visitare luoghi sacri, quanto ridere giocare scherzare correre saltare cadere e mangiare schifezze; un piccolo pappagallo tutto blu sorvolava le teste dei messicani cantando le sue magiche melodie come in una fiaba; il colore delle sue piume sembrava cambiare ad ogni curva, ad ogni movimento, ad ogni riflesso; la popolazione pareva non badare a lui che volava leggero, orbitando come un ballerino impazzito; sembrava quasi che non lo vedessero proprio. Ma i bambini lo vedevano molto bene; lo sentivano bene. Troppo bene. Bibo e Mimì si guardarono un pò disorientati, confusi; Bibo era convinto che quel pappagallo tutto blu stesse cantando i loro nomi.
"Bibooooo…Mimììììì…Bibooooo…Mimìììì…". Quando si girò verso sua sorella capì che non se lo stava immaginando; capì che anche lei aveva sentito; capì che davvero quel pappagallo li stava chiamando. Forse aveva bisogno di aiuto, forse voleva che lo seguissero chissà dove, o forse voleva solo giocare. Beh, loro volevano giocare con lui! Prese la mano di Mimì e cominciò a correre. Dall’alto, il pappagallo vedeva un bimbo ed una bimba praticamente identici dai capelli rosso fuoco e dalle lentiggini tanto simpatiche, muoversi agili e scaltri tra la folla, evitando di scontrarsi con quei corpi che prima avrebbero voluto abbracciare; vedeva due bellissimi bambini che lo seguivano, senza sapere il perché, senza nemmeno domandarselo, sotto una pioggia insistente che sembrava non turbarli minimamente. Sapeva lui, il pappagallo, che era destino che loro facessero di tutto per raggiungerlo. Sapeva lui, il pappagallo tutto blu, che quei due gemelli avevano un compito molto importante da svolgere qui, oggi.
Correvano mano nella mano da qualche minuto quando il rapace superò un cancello bianco alto poco più di un metro e mezzo con un cartello appeso che, se avessero loro saputo leggerlo, gli avrebbe raccontato che proprio lì, oltre le sbarre, in un tempo ormai passato e dimenticato, sorgeva una magica città incantata, dove regnava un mondo splendido e infinito in cui tutto era possibile. Non era necessario saper decrifrare quel testo tanto strano; lo avrebbero seguito comunque; lo avrebbero rincorso in capo al mondo; sentivano dentro, in fondo, nel cuore e nella pancia che era ciò che dovevano fare. E volevano farlo, ispirati da un’euforia unica che animava i loro spiriti giocherelloni. Così scavalcarono; entrò prima Bibo posando senza cautela un piede dopo l’altro sugli incastri di sbarre bianche che avevano tutta l’aria di non subire affatto l’usura del tempo e delle intemperie; una volta passato oltre aiutò la sorella a seguirlo mentre il loro nuovo amico li aspettava seduto su un bastone conficcato fermamente nel terreno morbido e verde. L’aria, in quel giardino, era strana, era più leggera, più pulita forse e ricordava tanto l’acqua frizzante, piena di bollicine che ti solleticano il palato e la lingua quando la bevi. Gli alberi erano meravigliosamente fioriti e profumati; decine di uccellini suonavano la loro melodia dall’alto dei rami di un ciliegio e due scoiattoli dal muso tanto dolce giocavano a rincorrersi, felici, agili e spensierati, mossi da una totale assenza di pericolo attorno. I bimbi avanzarono piano, passo dopo passo, verso il pappagallo, sentendo che ad ogni piede che si spostava, qualcosa dentro di loro e nell’aria tutt’attorno, mutava; si trasformava in gioia pura, in serenità, magicamente. Si sentivano come mai prima si erano sentiti; ricevere doni, giocare con la mamma, con gli amici del cuore, mangiare gelati a più non posso e rotolarsi nell’erba morbida, nulla di tutto questo li aveva mai resi così felici! Saturi di tanta leggerezza, si mossero più veloci verso il loro amico pennuto che stava lì e li guardava con occhi che sembravano davvero umani e che, ne erano sicuri, avrebbero anche saputo parlare; lo raggiunsero fin sotto il bastone, lo fissarono a lungo in quegli occhi tanto belli e tanto blu, come il mare, come il cielo d’estate e come il gelato al puffo. Lui chiuse un attimo gli occhi e chissà perché i bimbi fecero lo stesso, come attratti da una sorta di pensiero comune, di sollecitazione impalpabile e inudibile. Improvvisamente si fece tutto più fresco; la loro pelle respirava un’aria se possibile ancora più leggera, ancora più pulita, ancora più viva. Una luce forte ma molto gradevole filtrava attraverso le loro pupille chiuse donandogli una sensazione magnifica, di relax, di pace e beatitudine.
Quando riaprirono gli occhi il mondo che fino ad allora avevano conosciuto, era sparito, senza lasciare alcuna traccia; scoprirono subito che quella sensazione tanto strana e piacevole sulla pelle non era altro che acqua di mare, nella quale stavano ora fluttuando come fa una piuma nel cielo; tutto intorno a loro, pesci di ogni genere e colore nuotavano in gruppo, seguendo rotte invisibili e profumi impercettibili; gli alberi erano stati sostituiti da alghe che si muovevano lente, lente come fanno i tentacoli delle meduse e da coralli magnifici, coloratissimi, di un rosso tanto acceso da sembrare dipinti da pastelli, quelli con cui i nostri bimbi disegnavano a scuola, dando sfogo alla loro fervida immaginazione di fanciulli. Il suono del vento, in un certo senso, era rimasto lì, ma era in realtà il rumore dell’acqua mossa dalla pinne di tutti qui bellissimi pesci che nuotavano sorridendo verso le loro mete. L’ambiente era illuminato da una fonte di luce che nasceva qua e là, che era ovunque, generata da ogni cosa e da ogni essere; il solo fatto di trovarsi lì, significava che stavi dando ulteriore forza alla lucentezza di quel posto magico e magnifico; i bambini questo lo percepivano perfettamente, da ancora prima che aprissero gli occhi per godere di tanto splendore.
Davanti a loro un tenerissimo cavalluccio marino blu sostava leggero e immobile, luccicando sotto la sorgente di luce; la sua coda era lunga e bellissima e i suoi occhi..i suoi occhi… Bibo li riconosceva perfettamente: erano quelli che fino a poco prima lo avevano fissato nel giardino oltre il cancello bianco al centro della città; erano gli occhi di quel pappagallo tutto blu che lui e sua sorella Mimì avevano seguito con tanta gioia, sapendo che li avrebbe condotti sulla loro strada, al loro destino. Doveva aver fatto una strana magia chiudendo le sottili palpebre sul quel bastone conficcato nell’erba, portandoli qui sotto e doveva aver fatto anche di più perché, dopo pochi secondi si resero conto che potevano respirare l’acqua senza difficoltà alcuna; non avevano branchie, certo non si erano controllati il corpo intero ma sentivano che non c’erano, che non gli servivano, che i loro polmoni erano stati in qualche modo modificati, potenziati forse, o addirittura sostituiti da qualcosa di più grande, di più.. marino; di più magico. L’ossigeno contenuto nel liquido salato che si espandeva a perdita d’occhio sapeva nuotare bene e trovare facilmente la via per i loro piccoli polmoni di umani; tutto ciò che dovevano fare non era altro che continuare, andare avanti, non fermarsi, respirare; nient’altro che vivere, esattamente come avevano imparato a fare fin’ora; con l’unica differenza che ora, qui, galleggiavano a cento metri di profondità in mezzo ai pesci, come non avevano mai immaginato di poter fare.
All’improvviso il cavalluccio marino dipinto di blu si illuminò, il suo corpo si fece azzurro fosforescente, come se avesse al suo interno una specie di colonna vertebrale tutta fatta di lampadine al neon; l’attenzione dei bimbi fu immediatamente rapita.
"Niodo… mi chiamo Niodo e sono qui, o meglio voi siete qui perché qualcuno, non lontano, ha bisogno di voi". Noi? Per quale motivo? E come fai tu a parlare? E perché respiro sott’acqua? Come mai il tuo corpo s’illumina? Domande, molte domande si insinuavano nella testa di Bibo che tra i due era sicuramente quello meno con la testa tra le nuvole, pur essendo anch’egli un bambino di soli sei anni, esattamente come sua sorella.
"Qualcuno è in pericolo?", chiese finalmente Mimì.
"Sì! Qualcuno che ancora non conoscete; qualcuno che imparerete ad amare; loro già vi conoscono e vi amano, come fratelli". Niodo, il piccolo cavalluccio blu raccontò loro che questo era un mondo parallelo a quello degli umani, un mondo in cui vivono non solo pesci e molluschi, ma anche sirene e, per così dire, umani; beh, umani… a metà! Essendo l’esatto specchio del mondo che noi tutti conosciamo, ogni uomo o donna o bambino ha il suo complementare qui, in queste acque. Complementare? Che significa complementare?
"Senza di voi, loro non esisterebbero; senza di loro, voi non esistereste nel vostro mondo". Qualcosa che serve a dare completezza. Qualcosa senza la quale non ci sarebbe un’altra cosa; qualcosa senza la quale.. "Noi non esisteremmo?". I gemelli si guardarono un po’ perplessi, ma dentro sapevano che tutte quelle parole, ora, non avevano la minima importanza; sapevano che Niodo aveva ragione e sapevano molto bene che dovevano agire in fretta, qualunque cosa avrebbero dovuto fare. Così chiesero. Il vecchio pappagallo parlò e disse che due bambini uguali identici a loro erano intrappolati in una bolla d’aria molto pericolosa; stavano giocando a nascondino ("Ehi..anche noi ci giochiamo sempre! È bellissimo!") quando si sono ritrovati involontariamente rinchiusi dentro. Queste bolle possono essere fatali per gli abitanti di questo mondo perché all’interno non c’è altro che aria, ossigeno, niente acqua; questo  per un pesce significa…morte. Resta poco tempo a Clò e Bia, forse un’ora forse due dopodiché i loro organi cederanno al peso dell’aria circostante schiacciandosi e ponendo fine alle loro vite.
"Devo mostrarvi qualcosa… seguitemi!", il cavalluccio si girò, tutto illuminato di blu e scivolò via; si lasciava dietro una strana scia luminosa che evidenziava curiosamente le bollicine che dalla sua coda si spotavano rapide verso una meta sconosciuta, incalcolata; il suo procedere muovendo la coda a destra e a sinistra era davvero buffo, sembrava fiero e vanitoso e sembrava, anche di spalle, che stesse sorridendo; la luce dei suoi occhi era percepibile da ogni angolazione, la si vedeva anche quando non c’era, quando di certo non la si poteva vedere. Due grosse sogliole dall’aria tanto simpatica si avvicinarono ai bimbi dai capelli ramati, fecero due moine, come a dire Ehi, dai, salta su, strizzando l’occhiolino. E così fecero, saltarono sulla schiena delle due creaturine e si attaccarono dove riuscivano a trovare qualche punto di facile presa; ma non fu necessario perché il viaggio fu sì veloce, ma di certo non turbolento come quello in aereo per raggiungere il Mexico; e poi l’attrito dell’acua giocava una specie di effetto centrifuga permettendo ai due bambini di restare perfettamente in equilibrio; il percorso non fu lungo, in pochi minuti si ritrovarono a passare attraverso un bosco di alghe che gli ricordava tanto un bellissimo cartone animato che adoravano, in cui un pesciolino rosso a strisce viene rapito dagli umani e finisce in un mare troppo piccolo per essere mare e il padre dovrà affrontare di tutto per ritrovarlo ma poi, vivranno felici nell’oceano, insieme a tutti i loro simili. Le alghe all’interno del bosco erano alte e fitte e appiccicose; ma le sogliole, seguendo il cavalluccio, si muovevano leste e precise tra le foglie e i muschi sapendo esattamente cosa fare e quando farlo per evitare di finire incastrati tra le alghe di questo nuovo strano mondo. Sbucarono attraverso una fitta muraglia verde e restarono lì, impalati, a bocca aperta come se avessero visto un fantasma. Davanti a loro una grossa bolla vuota giaceva immobile sulla sabbia; all’interno due specchi li fissavano con aria di supplica; due specchi. Capelli rossi, lentiggini, occhi verdi, lui, lei, mano nella mano, tutto, tutto uguale, tranne che per.. le gambe che non c’erano. I loro rispettivi complementari di cui aveano sentito parlare pochi minuti fa erano lì davanti a loro, li fissavano, piangevano lacrime probabilmente dolci e muovevano con gran naturalezza una specie di coda tutta squamosa che regalava riflessi colorati e lucentezza ad ogni inclinazione. Clò e Bia, due sirenetti tanto spaventati e tanto identici ai nostri due bimbi affascinati. L’empatia era incredibile e l’energia che emanavo da dentro quell’embolo era quasi palpabile. La sirena, Clò, fissava Mimì così intensamente che questa sentì il bisogno di distogliere lo sguardo, per un attimo, ma fu subito riattratta da tanta bellezza e potenza; cercò di comunicare, di parlare forse, ma dall’esterno della bolla non si sentiva nulla, nemmeno una vibrazione. "Non possiamo sentire quello che dicono perché le pareti di questa bolla sono molto spesse ed è impossibile perfino distruggerle! La sorgente d’aria proviene dal vostro mondo, dai vostri mari, per questo hanno bisogno di voi; solo un umano può liberarli. Ogni bolla ha una serratura che permette di aprirla nel caso qualcuno ci finisca dentro, ma, purtroppo, essendo una creazione del mondo umano, la chiave si trova esclusivamente sul suolo terrestre; … noi non possiamo fare nulla per salvarli! Ma voi.. voi potete". Il racconto lasciò i bimbi senza fiato, sconvolti, increduli e quasi incapaci di accettare tanto. Ma quelle parole, quelle ultime due parole ‘Voi potete’ si fecero immediatamente enormi nelle loro teste e nei loro cuori, giganti, senza precedenti. L’amore che un bambino di sei anni può arrivare a provare, a sentire e a manifestare è qualcosa che non ha limiti, nel loro mondo come in questo.
"Ci aiuterete? Li salverete?", chiese Niodo. Mimì scece dalla schiena della sogliola, si avvicinò planando su acque sconosciute, fino ad arrivare alla sfera bluastra che rinchiudeva quelle piccole creature spaventate, tese la mano verso di loro, verso di lei, verso Clò e la poggiò alla superficie; fu come toccare un muro di latte tiepido, vivo, che respira, che si nutre e che soffre; la sofferenza che percepiva era quella dei sirenetti, non poteva essere altrimenti.
"Ti salverò, sorella, noi, noi vi salveremo!". Una lacrima scese timida sulla guancia di Bibo fino a raggiungere le labbra, una lacrima dolce come il miele e le fragole; una lacrima piena d’amore, di ammirazione, di speranza e di tutte le emozioni positive che un bambino può provare dentro al cuore. Si avvicinò alla sorella, le prese la mano, lei si girò verso di lui, verso i suoi occhi umidi nell’umido, sorrisero, guardarono i fratelli codati e sussurrarono qualcosa, insieme, come in simbiosi, le parole uscirono lente senza far rumore senza farsi sentire e magicamente, dall’altra parte, i sirenetti sorrisero a loro volta e insieme, come in simbiosi, pronunciarono le stesse identiche parole. Nessuno poté sentire o capire ciò che si dissero ma il cavalluccio sapeva dentro di sé che quelle parole erano la fonte stessa della vita, su ogni mondo, in ogni galassia, di ogni tempo e spazio; erano parole d’amore, di speranza; erano parole sacre. Erano la promessa della vita.
Niodo spiegò loro che dovevano affrettarsi perché la chiave non era vicina e non sarebbe stato così facile né raggiungerla, né tanto meno procurarsela. L’avrebbero trovata solo seguendo l’arcobaleno fino alla sua base; fuori pioveva ancora e presto lui si sarebbe fatto vedere rallegrando le facce tristi degli abitanti di Città del Mexico; ma non sarebbe rimasto a lungo; oggi sarebbe caduto esattamente sulla torre di controllo dell’aeroporto da cui erano giunti loro ieri sera. Dovevano attraversare di nuovo la città, raggiungere le piste d’atterraggio, trovare la torre di controllo, salire sul tetto e recuperare la chiave magica.
"La parte più semplice sarà farla apparire: non dovrete far altro che chiamarla, tre volte di seguito, a voce alta; Miur è il suo nome. Miur."
Già, ma tutto il resto, entrare nelle piste senza farsi vedere, con tutto il controllo che c’è, salire sulla torre di controllo e arrivare al tetto, senza farsi notare da anima viva, non sarà affatto semplice, pensò in silenzio il cavalluccio, ritenendo opportuno non avvertire i nuovi amici di questi particolari scoraggianti. Dopo tutto erano stati chiamati dal destino, anche se non sempre i prescelti riescono nelle missioni di questo mondo; ma loro, loro sono speciali, lo sento forte, pensò Niodo.
"Questo è un filo magico", disse dando loro una specie di gomitolo di spago arrotolato, color ocra.
"Vi servirà quando sarete all’aeroporto, per salire sul tetto della torre; non dovrete far altro che tenerlo in mano e puntarlo verso l’arcobaleno, lui saprà cosa fare e cosa farvi fare". Non sembrava affatto magico a guardarlo, ma di certo non per questo Bibo e Mimì non si fidarono del cavalluccio, che glielo porse con molta cura, sorridendo con quei suoi occhi blu, blu come il mare, come l’oceano, blu come il cielo, blu come…come gli occhi del loro dolcissomo papà. Un padre che se solo fosse qui, oggi, sarebbe fiero dei suoi figli, sarebbe orgoglioso come non lo è mai stato.
Le sogliole si offrirono di riportarli all’entrata del mare. Fisicamente avrebbero dovuto superare tre mila metri di terra sopra le loro teste prima di trovare la città, ma in realtà, ovviamente, ci volle ben poco, bastò aspettare che tutto si illuminasse di quella luce dorata che già avevano visto nel giardino, per finire proprio lì, di nuovo davanti a quel cancello, coi piedi su quell’erba tanto morbida, circondati da alberi rigogliosi e tanto profumati. Il cielo era nuvoloso e qualche goccia cadeva solitaria sulla città, cercando le sue amiche, già posate a terra in qualche pozza sporca abbandonata sul ciglio della strada. L’aria, fin lì, scendeva ancora leggera nei loro polmoni, ma pian piano che si avvicinavano al cancello bianco con quello strano cartello incomprensibile all’esterno, sentivano che qualcosa mutava piuttosto velocemente e che respirare non era più così…così bello come prima.
Superarono la cancellata, si guardarono in giro ma non videro nulla; nessuno arco colorato, nessuna traccia della chiave, nessuna pista e nessuna torre su cui salire. Decisero così di ritornare verso la piazza in cui avevano abbandonato la madre, sperando in qualche aiuto; ma dieci passi più tardi la pioggia ricominciò a bagnare i loro capelli rossi come il fuoco e a fargli il solletico sul collo; fu in quel preciso istante che alzarono la testa verso il grigio delle nuvole e videro il rosso, il verde il giallo, l’arancione, il viola, l’azzurro; c’erano tutti; erano lì, fermi in mezzo al cielo; aspettavano solo loro! Cambiarono direzione procedendo verso quello che, a loro insaputa, era il nord della città; correvano, correvano come il vento tra gli alberi, come un cavallo nella sua prateria, come un pensiero in un mondo di pensieri; correvano con lo sguardo fisso sui quei colori con la paura che potessero sparire all’improvviso, così come erano apparsi; si sentivano vivi; si sentivano pieni di energie e di gioia e di pace; si sentivano i protagonisti di una specie di favola scritta dalla mano pimpante di un giovane scrittore alle prese con un genere nuovo, a lui sconosciuto, un genere che affascina e che rapisce, si sentivano i protagonisti vincenti di una folle storia immaginata da una fanciulla dagli occhi del colore della cioccolata, una ragazza che ancora ricorda la bambina che è stata e che sarà sempre, dentro, in fondo, nell’anima, se solo lo vorrà; si sentivano i protagonisti di una vita immaginaria bellissima e piena di avventure fantastiche e di enigmi sconvolgenti e di colori meravigliosi e di animali parlanti e di pesci che cambiano colore e di città incantate ferme nel tempo e nello spazio e di specchi con code da sirena e di bolle grandi come case e di chiavi magiche che servono a salvare dei nuovi amici in pericolo di vita. Così si sentivano e così erano. Bibo e Mimì, protagonisti della loro stessa storia, della loro stessa vita. Una vita magica in un mondo magico.
Quando si prova a seguire il percorso dell’arcobaleno si sa, non c’è speranza di raggiungerne la base, la fonte; e non c’è speranza di avvicinarsi tanto da vederlo meglio; non si può; è un semplicissimo e bellissimo gioco di luci creato dal vapore acqueo che il calore della terra e dell’atmosfera rilascia tramite le gocce di pioggia; il nostro occhio lo vedrà finché ci sarà vapore ma di certo non potrà esso confrontarsi con lui faccia a faccia. Ma non ditelo ai bambini, ne resterebbero delusi ed è bello che credano di poter davvero un giorno, se fortunati, anche solo sfiorare con un dito lo scivolo luminoso di uno di questi archi meravigliosi; non diteglielo, lasciate che siano a loro scoprire la verità, vivendo. Ma soprattutto, non ditelo a Bibo e Mimì, perché potrebbero darvi del folle e ridere di voi a crepapelle, come non hanno mai riso prima. Potrebbero sconvolgere la vostra vita e far crollare ogni vostro credo e ogni vostra solida roccia scientifica sulla quale vi basate e vi siete sempre basati per capire le stranezze della vita. Non ditelo ai due gemellini dai capelli rossi perché loro, loro l’hanno visto l’arco, hanno visto lo scivolo e forse chissà, hanno visto perfino gli unicorno giocare a fare i salti e spiccare il volo tra le nuvole, con la bocca spalancata verso la pioggia per assaporare ogni millimetro di quell’acqua magica. Sono bambini speciali Bibo e Mimì, sono stati prescelti. Reclutati per una missione di certo adatta solo ad un bambino, una persona che sia in grado di volare con la propria mente e di sorvolare palazzi e cieli e piste e torri di controllo; chiamati per un intervento di livello superiore in un mondo anch’esso superiore in cui il mare non è altro che una dimensione parallela nella quale vivono creature simili a noi e legate da un cordone ombellicale invisibile ma vitale per la sopravvivenza di entrambi i mondi. Loro hanno corso come pazzi in mezzo a tutti quei visi scuri che vagavano per la città, chi per lavoro, chi per svago, chi per commissioni, chi per altro; hanno corso più veloci della luce per raggiungere l’aeroporto e la sua torre di controllo bianca sul cui tetto si posava delicato l’arcobaleno, adagiato come una foglia sulla superficie di un laghetto fermo e lucido e pieno di misteri. Erano arrivati alla rete che divide la città dalle piste di decollo, ci erano arrivati chiedendosi se qualcun altro oltre a loro fosse in grado di vedere che proprio lì cadeva l’arco colorato, che esattamente a dieci metri da loro si mostrava orgoglioso lo spettacolo più bello e intenso che occhio umano abbia mai potuto ammirare da così vicino; erano arrivati chiedendosi anche se la loro madre li stesse cercando e se fosse preoccupata per la loro sorte e quale potesse essere il modo più semplice di farle sapere che stavano bene e che erano solo in missione segreta per conto di un cavalluccio marino che prima era un pappagallo tutto blu e che viveva in un mondo fantastico pieno di pesci parlanti in cui c’erano due gemelli uguali identici a loro che erano in pericolo e che solo loro due potevano salvare. Le risposte erano più semplici di qualsiasi altro enigma: no! Nessuno poteva assistere allo spettacolo di colori che fluttuava sulle piste e non c’era modo di far sapere alla madre che stavano bene e che erano diventati all’improvviso i protagonisti di una favola scritta da chissà chi dall’altra parte del mondo. Ma di sicuro la mamma era preoccupata perché da ore ormai aspettava alla centrale di polizia con le lacrime che le solcavano il viso e le arrossavano gli occhi, in attesa di una risposta felice da parte di un poliziotto che le dicesse Signora, ecco i suoi bambini, stanno bene, stanno bene!
Passare oltre la rete non sembrava difficile: qualcuno aveva creato un buco in basso cercando di celarlo con un cespuglietto poco rigoglioso; fu una sciocchezza passare al di là grazie a questo piccolo dono di chissà quale sconosciuto; decisamente provvidenziale. Saltare avrebbe attirato l’attenzione di chissà quante persone e i due bimbi non potevano certo permettersi un simile errore; avrebbero perso in partenza e loro dovevano vincere, dovevano trovare la chiave prima che il sole si mangiasse affamato il suo arcobaleno e tutti i suoi colori magici. L’arcobaleno si sa, viene e in un baleno se ne va.
Davanti a loro una strada lunghissima che sembrava non finire mai e poi mai, si sdraiava come un lenzuolo grigio in mezzo ad un letto di erba verde, soffice e umida; piccole gocce trasparenti giacevano leggere su ogni stelo riflettendo i movimenti delle nuvole e degli aerei che ci passavano attraverso in fase di decollo e atterraggio; e poco distante una torre bianca, con in cima una specie di buffo cappello rosso a strisce e grosse vetrate che tentavano invano di nascondere i controllori di volo, si alzava maestosa sorretta da una fonte di luce che nessuno riusciva a vedere; peccato, perché era davvero emozionante, sembrava che una enorme mano colorata a strisce stringesse delicatamente il tetto di quell’edificio, quasi a volerlo proteggere e forse anche un pò cullare. Bibo mise la manina in tasca e ne tirò fuori il gomitolo che tutto sembrava tranne l‘oggetto magico di un mondo sotterraneo e fantastico, lo puntò verso la fonte di luce e lo guardò, lo osservò con la bocca spalancata prendere vita colorarsi d’oro e strotolarsi piano piano come farebbe un cobra incantatore stimolato dalle vibrazioni del flauto; dava l’impressione di colare oro da tutte le parti come un vulcano che sputa lento la sua lava rossa e calda da piccoli crateri situati lungo tutto il suo percorso. La mano di Bibo vibrò dolcemente mentre il filo si allungava volteggiando nell’aria come una foglia che, invece di essere portata via dal vento, lo guida per farsi seguire verso un mondo migliore in cui anche lui, il vento, può volare via, col vento, trascinato, senza controllo, senza meta e senza freni. Il suo consiglio fu evidente: aggirare la torre bianca; seguendolo i bimbi si accorsero che sul retro dell’edificio una lunga scala, protetta da inferriate cilindriche, saliva fino a raggiungerne l’estremo; guardando in alto con la testa rivolta verso il cielo, videro una scia dorata volteggiare curiosa sui gradini fino ad arrivare in cima; sembrava un quadro bellissimo con uno sfondo pieno di luce e di colori in cui il filo di Arianna giocava con le creazioni dell’uomo prima di gettarsi nelle  fantasie di due bimbi di sei anni. Era incredibilmente isolato quell’angolo di mondo, come se la popolazione intera si fosse fatta da parte per un attimo in vista dell’impresa dei due piccoli eroi dall’animo buono e gentile. Gradino dopo gradino Bibo e Mimì salirono fin su in cima alla torre, sempre più abbagliati dallo splendore dell’arco che ora era nel pieno della sua potenza e delle sue capacità; raggiunsero la superficie in un batter d’occhio e capirono immediatamente quel che intendeva dire la madre quando gli parlava della piramide da cui si vede tutta la città, quando gli diceva che sarebbe stata una delle esperienze più belle di tutta una vita; capirono perfettamente che la loro mamma non era mai stata qui, su questa torre di controllo e non aveva mai visto questo splendore che ora i loro occhi stavano ammirando, mai sazi, sempre più affamati di bellezza e di magia. Si presero per mano come erano soliti fare, come avevano l’istinto di fare da sempre, provando un emozione forte. Si strinsero forte come se avessero timore di perdersi nell’oblio di tanta luminosità. Si guardarono dritto negli occhi fino a dimenticarsi quasi di essere lì e di essere i protagonisti di questa storia. Ti voglio bene, pensò Bibo. Ti voglio bene, rispose Mimì.
"Miur… Miur… Miur!!!", gli occhi dentro agli occhi, le mani nelle mani, il respiro in un respiro, l’amore dentro ai cuori, la speranza … in un sorriso. E la chiave apparì.
Di certo non poteva essere descritta come una chiave normale; di certo non si poteva dire che quella chiave fosse simile a qualche altra già vista prima; di certo non potevano i nostri bimbi pensare che mai avrebbero rivisto una chiave simile in nessun altro posto del pianeta, l’avessero cercata per tutta la vita in ogni angolo di mondo seguendo ogni arcobaleno di ogni poggia estiva. Perché una chiave come questa non esiste in nessun altro luogo, non esiste in nessun’altra storia, non esiste in nessun’altra fantasia. Era una chiave sì, ma era anche qualcos’altro, era anche tutt’altro, era anche il tutto, il niente, la luce e il buio, il giorno e la notte, il bianco e il nero, la gioia e la tristezza, l’amore e l’odio, il bene e il male. Era tutto, quella chiave. Tenerla in mano era potere. Tenerla in mano era brivido. Tenerla in mano era saggezza. Bibo si sentì improvvisamente un uomo pur restando bambino dentro e fuori; sentiva di potere tutto; sapeva che quella chiave lo avrebbe reso ciò che sarebbe stato in futuro: un Uomo.
Anche Mimì ebbe l’onore di provare tanta emozione; erano gemelli, erano in simbiosi, non ci fu nemmeno bisogno di impugnarla; la piccola bambina era nel corpo e nell’anima del fratello mentre lui stringeva in mano la chiave che era tutto; tutto. Stavano assaporando l’emozione più bella di tutta la vita, anche più di quella vista che poco fa li aveva tramortiti di piacere, quando il filo dorato si agitò, si arrotolò nell’aria creando un vortice di lucentezza che fece ritornare i bimbi alla realtà, una realtà in cui fili d’oro magici si arrotolano nell’aria creando vortici di lucentezza, si sciolse e si gettò giù per le scale con la velocità di un leopardo affamato in piena caccia. Fecero lo stesso con la velocità di due bambini di sei anni affamati di fantasia e avventura e libertà. Corsero saltellando nell’erba con l’ossigeno che gli riempiva polmoni e cervello fino a renderli ubriachi di vita e di magia. Corsero fino alla rete metallica che avevano attraversato poco prima, si sdraiarono sull’erba bagnata notando il rosso il verde e il giallo spiarire dal riflesso di quelle piccole gocce che, prima, mostravano gli aerei e le nuvole che sputavano acqua da ogni parte; strisciarono fino all’altro lato e se ne andarono felici.
Erano stati bravi, avevano superato la fase forse più difficile della loro missione e ora tornavano verso il centro della città dove il pappagallo blu li attendeva impaziente per portarli di nuovo al cospetto della bolla d’aria che aveva rinchiuso i sirenetti; restava poco tempo a Clò e Bia, l’ossigeno aveva iniziato già a pesare sui loro corpi schiacciandoli sulla superficie lattiginosa che li ospitava. Bibo e Mimì lo sapevano, lo sentivano, lo respiravano nell’aria, in quell’aria umana che assaporavano a pieni polmini, correndo come surfisti sulla cresta dell’onda. Passavano inosservati tra la folla con l’unico pensiero in testa che presto avrebbero abbracciato i loro nuovi fratelli, donandogli la libertà e la possibilità di ritornare a casa.
Giunti al cancello bianco si fermarono, stanchi e affannati, con le mani sulle ginocchia  e la schiena curva, respirando a pieni polmoni ossigeno che si faceva sempre pù leggero e pieno di energia. Passarono trenta secondi; le forze tornarono per magia, la stanchezza svanì nel nulla, tornando forse da dove era venuta, saltarono le sbarre bianche e si avvicinarono al pappagallo; chiusero gli occhi; la luce attorno si fece di nuovo forte e gli uccellini smisero di cantare le loro canzoni d’amore; la pelle si riempì di brividi e furono di nuovo sott’acqua. Salirono sulla sciena delle sogliole che ormai erano diventate le loro limousine personali e scivolarono via, verso la bolla d’aria e verso la fine della loro avventura. Fermi davanti alla sfera Niodo gli fece notare che la serratura era finita in fondo, sulla sabbia e si misero tutti insieme a spingere. I sirenetti dall’interni cercarono di fare meno peso possibile, essendo ormai allo stremo delle forze; il cavalluccio aveva chiamato a sé uno squadrone intero di amici, tra suoi simili, sogliole, pesci palla, pesci pagliaccio, meduse, delfini, razze, sardine, gamberoni, polipi e squali. Quest’ultimi, i più forti e grandi presero la rincorsa per spingere con più potenza possibile la bolla dal lato destro; i polipi con le loro ventose si erano attaccati alla parte alta della superficie rotonda spingendo in basso per farla rotolare sulla sabbia; i pesci palla si posizionarono sotto, tra il fondo bianco del mare e l’estremità della palla, gonfiandosi ogni volta che gli squali attaccavano a suon di testate; tutti gli altri, spingevano con tutte le forze che avevano tra le squame. Ognuno faceva la sua parte. Bibo aiutava con le mani mentre Mimì aspettava il momento giusto per inserire la chiave nella serratura nascosta tra i granelli di sabbia. La bolla era pesantissima, come un palazzo di tre piani dalle solide fondamenta; ma il mare, gentile amico di queste creature magiche, accorse in loro aiuto, facendo sopraggiungere una piccola tempesta che spingeva verso ovest dove i polipi si stavano consumando i polpastrelli a furia di tirare. I capelli di Mimì svolazzavano seguendo la corrente e i pesci più piccoli rotolavano nell’acqua come trottole impazzite. Sembrava tutto inutile. La bolla non voleva muoversi e i sirenetti stavano ormai annaspando all’interno quando, dal nulla, sbucò un’enorme orca bianca e nera; si schiantò con estrema violenza su di essa provocando un’onda d’urto che fece catapultare lontano tutti i cavallucci e i pesci pagliaccio che non sapevano dove aggrapparsi e tutti quelli che non avevano avuto il tempo di notare quella incredibile massa, sbucata da chissà dove. La sfera si mosse, gli squali si sdraiarono rapidi sotto di essa per non farla tornare indietro e Mimì con grande prontezza inserirì la chiave magica nella serratura e girò. Un gigantesco ‘Puff’ echeggiò nell’aria stordendo momentaneamente Bibo e la sorella che non erano abituati ai profondi rumori dell’oceano amplificati dalla forza dell’acqua e dalla pressione. L’enorme bolla sparì lasciando solo una serie infinita di piccole bollicine che scappavano via verso l’esterno, verso il mare aperto, verso est e verso ovest. I bimbi immaginarono l’esplosione di una grandissima bottiglia di acqua frizzante, in quel momento unico collegamento mentale col mondo esterno, di cui facevano ancora parte.
Finalmente Clò e Bia bevvero tutta l’acqua di cui avevano bisogno e di cui avevano avuto tanta nostalgia nelle ultime ore in cui, disperati, avevano temuto la morte. Le loro branchie si riempirono felici e ingorde. I loro volti tornarono a rasserenarsi e i corpi ritrovarono le forze perdute in men che non si dica, com’era stato prima per Bibo e Mimì, fuori dal cancello. L’energia di quel posto magico era miracolosa. La vita di quel posto magico era miracolosa.
"Grazie, amici, fratelli, compagni, grazie! Avete mantenuto la promessa e ci avete salvati; grazie; non fosse stato per voi…", Clò non poté nemmeno finire la frase, il solo pensiero le aveva bloccato le parole in gola, terrorizzate, timorose di trovare aria in cui espandersi e divenire reali.
"Siamo fratelli, e lo saremo per sempre d’ora in poi. Potrete contare su di noi per ogni cosa. Per tutto. Quando vorrete, quando ne avrete bisogno", concluse per lei il fratello Bia. Le loro voci risuonavano ora nel silenzio del mare profondo, come il suono più bello che orecchio umano abbia mai sentito, dolce, tenero, sincero, affidabile, amico. Imbarazzati per tante belle parole, i gemelli dai capelli rossi si commossero dolcemente e, tenendosi per mano, corsero ad abbracciare la fonte di tanta gioia e di tanta serenità. Guardarli insieme, stretti l’uno dentro l’abbraccio sincero dell’altro era magico, quanto il posto in cui si trovavano. Quanto l’avventura che stavano vivendo.
I pesci accorsi per il salvataggio piano piano tornarono da dove erano venuti, tornarono alla loro vita marina e alla loro famiglia, voltandosi ogni tanto, sorridendo e sospirando. Si era evitata la perdita di due sirenetti e questo era un bene, per tutti quanti, per questo mondo sotterraneo e per quello in superficie, se pur ignaro del collegamento e della potenza di tale simbiosi. Niodo stava parlando con i due sopravvissuti per assicurarsi che tutto fosse apposto nei loro corpi di sirenetti, mentre i nostri protagonisti ancora si abbracciavano stretti stretti come fosse la prima volta dopo tanti, tanti anni. Quando il cavalluccio tornò da loro tutto illuminato di blu, portandosi dietro anche i superstiti di questa dissavventura, la commozione fu grande, per tutti; sembrava che qualcosa di simile a lacrime stesse scendendo dai piccoli occhi di Niodo, ma la lucentezza del suo corpo non permise di capire; immaginare era più che sufficiente e accettabile. Clò aveva in mano due piccole squame che lei e il fratello si erano staccati dalla coda; risplendevano come lampadine intermittenti, di un colore indefinibile, che raccoglieva forse tutti i colori dell’arcobaleno.
"Per averci salvato, per aver reso possibile il nostro ritorno a casa e per essere stati così coraggiosi!", porgendo le squame luminose e piangendo dalla gioia, Clò donò loro un pezzo di sé stessi.
"Basterà strofinarle un pò; si aprirà una porta dorata, ovunque voi siate, in qualunque momento, a qualunque età; potremo abbracciarci e sorriderci e parlare e giocare. Potremo ringraziarvi ancora una volta per ciò che avete fatto oggi, qui"; increduli i due bimbi presero in mano quelle che sarebbero state d’ora in poi il loro personalissimo collegamento con questo mondo meraviglioso di cui hanno fatto parte, se pur per una sola splendida giornata.
"Grazie Clò, grazie Bia, con tutto il cuore", dissero insieme, tenendosi per mano. "E grazie a te, Niodo, per averci chiamati e guidati". Il piccolo cavalluccio marino si illuminò come un faro e abbassò la testa, emozionato, pieno d’amore incondizionato verso questi due bellissimi bambini dai capelli rossi e le lentiggini più carine del mondo.
"Ora dovete andare, vostra madre vi sta aspettando. Seguite il filo, vi condurrà da lei… e ricordate, sarete sempre i benvenuti qui, sempre". Queste ultime parole risuonarono come una promessa fraterna alle orecchie di Bibo e Mimì, che piano piano scivolavano via sulla schiena di due sogliole commosse dagli eventi a da tanto amore. Si girarono un attimo, sorridendo e salutando con la manina mentre l’altra stringeva forte la squama magica, il ricordo più caro di tutta questa avventura, poi, sparirono.
Nel giardino, fuori, dove gli alberi li osservavano curiosi e gli uccellini fischiettavano felici, il sole era tornato a splendere; e così su tutta Città  del Mexico. Bibo e Mimì si guardarono ancora una volta, ridendo questa volta come due bimbi, davvero come due bimbi, figli di un mondo reale in cui ridere era alla base di ogni buon sentimento, alla radice di ogni giornata. Si presero la mano, scavalcarono, si girarono un attimo, soffiarono un bacio ad un pappagallo blu che volava roteando nell’aria leggera di un giardino verdissimo e, seguendo un filo magico tutto dorato, corsero via, verso casa, verso l’amore di una madre che li aspettava a braccia aperte e verso la terza piramide più grande del mondo, dalla quale avrebbero visto, sicuramente, uno degli spettacoli più belli ed emozionanti di tutta la vita. Uno, sì, ma di certo, sicuramente, non il primo, non il più bello, non il più emozionante. Quello, se lo porteranno sempre nel cuore sapendo che quando vorranno, potranno. Potranno vivere ancora una volta la magia e lo splendore di un mondo meraviglioso di cui sono stati ospiti e testimoni. Potranno essere ancora una volta i protagonisti di una favola bellissima, scritta da due mani sconosciute lì, da qualche parte, in questo folle, pazzo e bellissimo mondo.

Lo so, cos'è la marea

Gli inizi non sono sempre per forza complicati: a volte bisogna faticare, è vero, magari il primo passo sembra un'impresa impossibile e tutto sembra dover rotolare su per una salita rovinosa piena di buche, di macerie e di tranelli; rotola, rotola, rotola, rotola di qua e di là! ma, ci sono delle occasioni in cui basta poco, dei momenti, e sono quelli che preferisco, in cui devi solo fare ciò che ti viene più naturale... e se si tratta di sognare, beh, allora basta davvero poco, basta chiudere gli occhi e iniziare a volare. Fantasie, fantasie che volano libere, fantasie che a volte fan ridere!
E se tutto comincia come in un sogno, il primo passo è leggero, sublime, beato. Favole fa fa favole, favole!