...fermiamoci ad osservare

martedì 18 gennaio 2011

Bibo e Mimì


                                                              
Pioveva. Le gocce tiepide cadevano sulle loro teste simultaneamente solleticandone i capelli rossi, creando dei piccoli brividi tanto stuzzicanti; Bibo e sua sorella Mimì erano affascinati da tanto splendore. Davanti ai loro occhi Città del Mexico si estendeva senza freni, senza limiti, senza ostacoli. La madre stava parlando con degli agenti per farsi spiegare come raggiungere la piramide del Sole a Teotihucàn; diceva sempre che salire i 248 scalini che portano in cima ad essa sarebbe stata per loro una delle esperienze più belle di tutta la vita; una volta calpestato l’ultimo, la vista è meravigliosa e la sensazione di potere e di libertà, ineguagliabile! La terza piramide al mondo per dimensione! Era più felice lei dei bimbi all’idea di portarli in quel posto favoloso!
I fanciulli però erano stanchi, felici di essere in mezzo a tanto splendore, sì, ma stufi di aspettare lei che non capiva bene la lingua di questo popolo meraviglioso e che spendeva un sacco di tempo ad ascoltare le loro spiegazioni. Se ne stavano lì, mano nella mano, riparati sotto il tendone di un saloon che sembrava uscito da un libro di Gabriel Garcia Marquez, dove le donne non entrano, dove i machos si rifugiano a inzupparsi di tequila e di birra, osservavano il flusso costante di gente che attraversava senza tregua la seconda piazza più grande del mondo denominata ‘lo zocalo’, pavimentata nel 1500 con pietre di uno dei principali templi aztechi, dal conquistatore Cortès. Ammiravano lo splendore dei riflessi del sole che si posavano morbidi sui volti scuri di questa gente e pensavano alla voglia di correre in mezzo a loro, di giocare con le loro mani, di abbracciare i loro corpi piccoli e tanto teneri; erano bambini, non era così importante per loro visitare luoghi sacri, quanto ridere giocare scherzare correre saltare cadere e mangiare schifezze; un piccolo pappagallo tutto blu sorvolava le teste dei messicani cantando le sue magiche melodie come in una fiaba; il colore delle sue piume sembrava cambiare ad ogni curva, ad ogni movimento, ad ogni riflesso; la popolazione pareva non badare a lui che volava leggero, orbitando come un ballerino impazzito; sembrava quasi che non lo vedessero proprio. Ma i bambini lo vedevano molto bene; lo sentivano bene. Troppo bene. Bibo e Mimì si guardarono un pò disorientati, confusi; Bibo era convinto che quel pappagallo tutto blu stesse cantando i loro nomi.
"Bibooooo…Mimììììì…Bibooooo…Mimìììì…". Quando si girò verso sua sorella capì che non se lo stava immaginando; capì che anche lei aveva sentito; capì che davvero quel pappagallo li stava chiamando. Forse aveva bisogno di aiuto, forse voleva che lo seguissero chissà dove, o forse voleva solo giocare. Beh, loro volevano giocare con lui! Prese la mano di Mimì e cominciò a correre. Dall’alto, il pappagallo vedeva un bimbo ed una bimba praticamente identici dai capelli rosso fuoco e dalle lentiggini tanto simpatiche, muoversi agili e scaltri tra la folla, evitando di scontrarsi con quei corpi che prima avrebbero voluto abbracciare; vedeva due bellissimi bambini che lo seguivano, senza sapere il perché, senza nemmeno domandarselo, sotto una pioggia insistente che sembrava non turbarli minimamente. Sapeva lui, il pappagallo, che era destino che loro facessero di tutto per raggiungerlo. Sapeva lui, il pappagallo tutto blu, che quei due gemelli avevano un compito molto importante da svolgere qui, oggi.
Correvano mano nella mano da qualche minuto quando il rapace superò un cancello bianco alto poco più di un metro e mezzo con un cartello appeso che, se avessero loro saputo leggerlo, gli avrebbe raccontato che proprio lì, oltre le sbarre, in un tempo ormai passato e dimenticato, sorgeva una magica città incantata, dove regnava un mondo splendido e infinito in cui tutto era possibile. Non era necessario saper decrifrare quel testo tanto strano; lo avrebbero seguito comunque; lo avrebbero rincorso in capo al mondo; sentivano dentro, in fondo, nel cuore e nella pancia che era ciò che dovevano fare. E volevano farlo, ispirati da un’euforia unica che animava i loro spiriti giocherelloni. Così scavalcarono; entrò prima Bibo posando senza cautela un piede dopo l’altro sugli incastri di sbarre bianche che avevano tutta l’aria di non subire affatto l’usura del tempo e delle intemperie; una volta passato oltre aiutò la sorella a seguirlo mentre il loro nuovo amico li aspettava seduto su un bastone conficcato fermamente nel terreno morbido e verde. L’aria, in quel giardino, era strana, era più leggera, più pulita forse e ricordava tanto l’acqua frizzante, piena di bollicine che ti solleticano il palato e la lingua quando la bevi. Gli alberi erano meravigliosamente fioriti e profumati; decine di uccellini suonavano la loro melodia dall’alto dei rami di un ciliegio e due scoiattoli dal muso tanto dolce giocavano a rincorrersi, felici, agili e spensierati, mossi da una totale assenza di pericolo attorno. I bimbi avanzarono piano, passo dopo passo, verso il pappagallo, sentendo che ad ogni piede che si spostava, qualcosa dentro di loro e nell’aria tutt’attorno, mutava; si trasformava in gioia pura, in serenità, magicamente. Si sentivano come mai prima si erano sentiti; ricevere doni, giocare con la mamma, con gli amici del cuore, mangiare gelati a più non posso e rotolarsi nell’erba morbida, nulla di tutto questo li aveva mai resi così felici! Saturi di tanta leggerezza, si mossero più veloci verso il loro amico pennuto che stava lì e li guardava con occhi che sembravano davvero umani e che, ne erano sicuri, avrebbero anche saputo parlare; lo raggiunsero fin sotto il bastone, lo fissarono a lungo in quegli occhi tanto belli e tanto blu, come il mare, come il cielo d’estate e come il gelato al puffo. Lui chiuse un attimo gli occhi e chissà perché i bimbi fecero lo stesso, come attratti da una sorta di pensiero comune, di sollecitazione impalpabile e inudibile. Improvvisamente si fece tutto più fresco; la loro pelle respirava un’aria se possibile ancora più leggera, ancora più pulita, ancora più viva. Una luce forte ma molto gradevole filtrava attraverso le loro pupille chiuse donandogli una sensazione magnifica, di relax, di pace e beatitudine.
Quando riaprirono gli occhi il mondo che fino ad allora avevano conosciuto, era sparito, senza lasciare alcuna traccia; scoprirono subito che quella sensazione tanto strana e piacevole sulla pelle non era altro che acqua di mare, nella quale stavano ora fluttuando come fa una piuma nel cielo; tutto intorno a loro, pesci di ogni genere e colore nuotavano in gruppo, seguendo rotte invisibili e profumi impercettibili; gli alberi erano stati sostituiti da alghe che si muovevano lente, lente come fanno i tentacoli delle meduse e da coralli magnifici, coloratissimi, di un rosso tanto acceso da sembrare dipinti da pastelli, quelli con cui i nostri bimbi disegnavano a scuola, dando sfogo alla loro fervida immaginazione di fanciulli. Il suono del vento, in un certo senso, era rimasto lì, ma era in realtà il rumore dell’acqua mossa dalla pinne di tutti qui bellissimi pesci che nuotavano sorridendo verso le loro mete. L’ambiente era illuminato da una fonte di luce che nasceva qua e là, che era ovunque, generata da ogni cosa e da ogni essere; il solo fatto di trovarsi lì, significava che stavi dando ulteriore forza alla lucentezza di quel posto magico e magnifico; i bambini questo lo percepivano perfettamente, da ancora prima che aprissero gli occhi per godere di tanto splendore.
Davanti a loro un tenerissimo cavalluccio marino blu sostava leggero e immobile, luccicando sotto la sorgente di luce; la sua coda era lunga e bellissima e i suoi occhi..i suoi occhi… Bibo li riconosceva perfettamente: erano quelli che fino a poco prima lo avevano fissato nel giardino oltre il cancello bianco al centro della città; erano gli occhi di quel pappagallo tutto blu che lui e sua sorella Mimì avevano seguito con tanta gioia, sapendo che li avrebbe condotti sulla loro strada, al loro destino. Doveva aver fatto una strana magia chiudendo le sottili palpebre sul quel bastone conficcato nell’erba, portandoli qui sotto e doveva aver fatto anche di più perché, dopo pochi secondi si resero conto che potevano respirare l’acqua senza difficoltà alcuna; non avevano branchie, certo non si erano controllati il corpo intero ma sentivano che non c’erano, che non gli servivano, che i loro polmoni erano stati in qualche modo modificati, potenziati forse, o addirittura sostituiti da qualcosa di più grande, di più.. marino; di più magico. L’ossigeno contenuto nel liquido salato che si espandeva a perdita d’occhio sapeva nuotare bene e trovare facilmente la via per i loro piccoli polmoni di umani; tutto ciò che dovevano fare non era altro che continuare, andare avanti, non fermarsi, respirare; nient’altro che vivere, esattamente come avevano imparato a fare fin’ora; con l’unica differenza che ora, qui, galleggiavano a cento metri di profondità in mezzo ai pesci, come non avevano mai immaginato di poter fare.
All’improvviso il cavalluccio marino dipinto di blu si illuminò, il suo corpo si fece azzurro fosforescente, come se avesse al suo interno una specie di colonna vertebrale tutta fatta di lampadine al neon; l’attenzione dei bimbi fu immediatamente rapita.
"Niodo… mi chiamo Niodo e sono qui, o meglio voi siete qui perché qualcuno, non lontano, ha bisogno di voi". Noi? Per quale motivo? E come fai tu a parlare? E perché respiro sott’acqua? Come mai il tuo corpo s’illumina? Domande, molte domande si insinuavano nella testa di Bibo che tra i due era sicuramente quello meno con la testa tra le nuvole, pur essendo anch’egli un bambino di soli sei anni, esattamente come sua sorella.
"Qualcuno è in pericolo?", chiese finalmente Mimì.
"Sì! Qualcuno che ancora non conoscete; qualcuno che imparerete ad amare; loro già vi conoscono e vi amano, come fratelli". Niodo, il piccolo cavalluccio blu raccontò loro che questo era un mondo parallelo a quello degli umani, un mondo in cui vivono non solo pesci e molluschi, ma anche sirene e, per così dire, umani; beh, umani… a metà! Essendo l’esatto specchio del mondo che noi tutti conosciamo, ogni uomo o donna o bambino ha il suo complementare qui, in queste acque. Complementare? Che significa complementare?
"Senza di voi, loro non esisterebbero; senza di loro, voi non esistereste nel vostro mondo". Qualcosa che serve a dare completezza. Qualcosa senza la quale non ci sarebbe un’altra cosa; qualcosa senza la quale.. "Noi non esisteremmo?". I gemelli si guardarono un po’ perplessi, ma dentro sapevano che tutte quelle parole, ora, non avevano la minima importanza; sapevano che Niodo aveva ragione e sapevano molto bene che dovevano agire in fretta, qualunque cosa avrebbero dovuto fare. Così chiesero. Il vecchio pappagallo parlò e disse che due bambini uguali identici a loro erano intrappolati in una bolla d’aria molto pericolosa; stavano giocando a nascondino ("Ehi..anche noi ci giochiamo sempre! È bellissimo!") quando si sono ritrovati involontariamente rinchiusi dentro. Queste bolle possono essere fatali per gli abitanti di questo mondo perché all’interno non c’è altro che aria, ossigeno, niente acqua; questo  per un pesce significa…morte. Resta poco tempo a Clò e Bia, forse un’ora forse due dopodiché i loro organi cederanno al peso dell’aria circostante schiacciandosi e ponendo fine alle loro vite.
"Devo mostrarvi qualcosa… seguitemi!", il cavalluccio si girò, tutto illuminato di blu e scivolò via; si lasciava dietro una strana scia luminosa che evidenziava curiosamente le bollicine che dalla sua coda si spotavano rapide verso una meta sconosciuta, incalcolata; il suo procedere muovendo la coda a destra e a sinistra era davvero buffo, sembrava fiero e vanitoso e sembrava, anche di spalle, che stesse sorridendo; la luce dei suoi occhi era percepibile da ogni angolazione, la si vedeva anche quando non c’era, quando di certo non la si poteva vedere. Due grosse sogliole dall’aria tanto simpatica si avvicinarono ai bimbi dai capelli ramati, fecero due moine, come a dire Ehi, dai, salta su, strizzando l’occhiolino. E così fecero, saltarono sulla schiena delle due creaturine e si attaccarono dove riuscivano a trovare qualche punto di facile presa; ma non fu necessario perché il viaggio fu sì veloce, ma di certo non turbolento come quello in aereo per raggiungere il Mexico; e poi l’attrito dell’acua giocava una specie di effetto centrifuga permettendo ai due bambini di restare perfettamente in equilibrio; il percorso non fu lungo, in pochi minuti si ritrovarono a passare attraverso un bosco di alghe che gli ricordava tanto un bellissimo cartone animato che adoravano, in cui un pesciolino rosso a strisce viene rapito dagli umani e finisce in un mare troppo piccolo per essere mare e il padre dovrà affrontare di tutto per ritrovarlo ma poi, vivranno felici nell’oceano, insieme a tutti i loro simili. Le alghe all’interno del bosco erano alte e fitte e appiccicose; ma le sogliole, seguendo il cavalluccio, si muovevano leste e precise tra le foglie e i muschi sapendo esattamente cosa fare e quando farlo per evitare di finire incastrati tra le alghe di questo nuovo strano mondo. Sbucarono attraverso una fitta muraglia verde e restarono lì, impalati, a bocca aperta come se avessero visto un fantasma. Davanti a loro una grossa bolla vuota giaceva immobile sulla sabbia; all’interno due specchi li fissavano con aria di supplica; due specchi. Capelli rossi, lentiggini, occhi verdi, lui, lei, mano nella mano, tutto, tutto uguale, tranne che per.. le gambe che non c’erano. I loro rispettivi complementari di cui aveano sentito parlare pochi minuti fa erano lì davanti a loro, li fissavano, piangevano lacrime probabilmente dolci e muovevano con gran naturalezza una specie di coda tutta squamosa che regalava riflessi colorati e lucentezza ad ogni inclinazione. Clò e Bia, due sirenetti tanto spaventati e tanto identici ai nostri due bimbi affascinati. L’empatia era incredibile e l’energia che emanavo da dentro quell’embolo era quasi palpabile. La sirena, Clò, fissava Mimì così intensamente che questa sentì il bisogno di distogliere lo sguardo, per un attimo, ma fu subito riattratta da tanta bellezza e potenza; cercò di comunicare, di parlare forse, ma dall’esterno della bolla non si sentiva nulla, nemmeno una vibrazione. "Non possiamo sentire quello che dicono perché le pareti di questa bolla sono molto spesse ed è impossibile perfino distruggerle! La sorgente d’aria proviene dal vostro mondo, dai vostri mari, per questo hanno bisogno di voi; solo un umano può liberarli. Ogni bolla ha una serratura che permette di aprirla nel caso qualcuno ci finisca dentro, ma, purtroppo, essendo una creazione del mondo umano, la chiave si trova esclusivamente sul suolo terrestre; … noi non possiamo fare nulla per salvarli! Ma voi.. voi potete". Il racconto lasciò i bimbi senza fiato, sconvolti, increduli e quasi incapaci di accettare tanto. Ma quelle parole, quelle ultime due parole ‘Voi potete’ si fecero immediatamente enormi nelle loro teste e nei loro cuori, giganti, senza precedenti. L’amore che un bambino di sei anni può arrivare a provare, a sentire e a manifestare è qualcosa che non ha limiti, nel loro mondo come in questo.
"Ci aiuterete? Li salverete?", chiese Niodo. Mimì scece dalla schiena della sogliola, si avvicinò planando su acque sconosciute, fino ad arrivare alla sfera bluastra che rinchiudeva quelle piccole creature spaventate, tese la mano verso di loro, verso di lei, verso Clò e la poggiò alla superficie; fu come toccare un muro di latte tiepido, vivo, che respira, che si nutre e che soffre; la sofferenza che percepiva era quella dei sirenetti, non poteva essere altrimenti.
"Ti salverò, sorella, noi, noi vi salveremo!". Una lacrima scese timida sulla guancia di Bibo fino a raggiungere le labbra, una lacrima dolce come il miele e le fragole; una lacrima piena d’amore, di ammirazione, di speranza e di tutte le emozioni positive che un bambino può provare dentro al cuore. Si avvicinò alla sorella, le prese la mano, lei si girò verso di lui, verso i suoi occhi umidi nell’umido, sorrisero, guardarono i fratelli codati e sussurrarono qualcosa, insieme, come in simbiosi, le parole uscirono lente senza far rumore senza farsi sentire e magicamente, dall’altra parte, i sirenetti sorrisero a loro volta e insieme, come in simbiosi, pronunciarono le stesse identiche parole. Nessuno poté sentire o capire ciò che si dissero ma il cavalluccio sapeva dentro di sé che quelle parole erano la fonte stessa della vita, su ogni mondo, in ogni galassia, di ogni tempo e spazio; erano parole d’amore, di speranza; erano parole sacre. Erano la promessa della vita.
Niodo spiegò loro che dovevano affrettarsi perché la chiave non era vicina e non sarebbe stato così facile né raggiungerla, né tanto meno procurarsela. L’avrebbero trovata solo seguendo l’arcobaleno fino alla sua base; fuori pioveva ancora e presto lui si sarebbe fatto vedere rallegrando le facce tristi degli abitanti di Città del Mexico; ma non sarebbe rimasto a lungo; oggi sarebbe caduto esattamente sulla torre di controllo dell’aeroporto da cui erano giunti loro ieri sera. Dovevano attraversare di nuovo la città, raggiungere le piste d’atterraggio, trovare la torre di controllo, salire sul tetto e recuperare la chiave magica.
"La parte più semplice sarà farla apparire: non dovrete far altro che chiamarla, tre volte di seguito, a voce alta; Miur è il suo nome. Miur."
Già, ma tutto il resto, entrare nelle piste senza farsi vedere, con tutto il controllo che c’è, salire sulla torre di controllo e arrivare al tetto, senza farsi notare da anima viva, non sarà affatto semplice, pensò in silenzio il cavalluccio, ritenendo opportuno non avvertire i nuovi amici di questi particolari scoraggianti. Dopo tutto erano stati chiamati dal destino, anche se non sempre i prescelti riescono nelle missioni di questo mondo; ma loro, loro sono speciali, lo sento forte, pensò Niodo.
"Questo è un filo magico", disse dando loro una specie di gomitolo di spago arrotolato, color ocra.
"Vi servirà quando sarete all’aeroporto, per salire sul tetto della torre; non dovrete far altro che tenerlo in mano e puntarlo verso l’arcobaleno, lui saprà cosa fare e cosa farvi fare". Non sembrava affatto magico a guardarlo, ma di certo non per questo Bibo e Mimì non si fidarono del cavalluccio, che glielo porse con molta cura, sorridendo con quei suoi occhi blu, blu come il mare, come l’oceano, blu come il cielo, blu come…come gli occhi del loro dolcissomo papà. Un padre che se solo fosse qui, oggi, sarebbe fiero dei suoi figli, sarebbe orgoglioso come non lo è mai stato.
Le sogliole si offrirono di riportarli all’entrata del mare. Fisicamente avrebbero dovuto superare tre mila metri di terra sopra le loro teste prima di trovare la città, ma in realtà, ovviamente, ci volle ben poco, bastò aspettare che tutto si illuminasse di quella luce dorata che già avevano visto nel giardino, per finire proprio lì, di nuovo davanti a quel cancello, coi piedi su quell’erba tanto morbida, circondati da alberi rigogliosi e tanto profumati. Il cielo era nuvoloso e qualche goccia cadeva solitaria sulla città, cercando le sue amiche, già posate a terra in qualche pozza sporca abbandonata sul ciglio della strada. L’aria, fin lì, scendeva ancora leggera nei loro polmoni, ma pian piano che si avvicinavano al cancello bianco con quello strano cartello incomprensibile all’esterno, sentivano che qualcosa mutava piuttosto velocemente e che respirare non era più così…così bello come prima.
Superarono la cancellata, si guardarono in giro ma non videro nulla; nessuno arco colorato, nessuna traccia della chiave, nessuna pista e nessuna torre su cui salire. Decisero così di ritornare verso la piazza in cui avevano abbandonato la madre, sperando in qualche aiuto; ma dieci passi più tardi la pioggia ricominciò a bagnare i loro capelli rossi come il fuoco e a fargli il solletico sul collo; fu in quel preciso istante che alzarono la testa verso il grigio delle nuvole e videro il rosso, il verde il giallo, l’arancione, il viola, l’azzurro; c’erano tutti; erano lì, fermi in mezzo al cielo; aspettavano solo loro! Cambiarono direzione procedendo verso quello che, a loro insaputa, era il nord della città; correvano, correvano come il vento tra gli alberi, come un cavallo nella sua prateria, come un pensiero in un mondo di pensieri; correvano con lo sguardo fisso sui quei colori con la paura che potessero sparire all’improvviso, così come erano apparsi; si sentivano vivi; si sentivano pieni di energie e di gioia e di pace; si sentivano i protagonisti di una specie di favola scritta dalla mano pimpante di un giovane scrittore alle prese con un genere nuovo, a lui sconosciuto, un genere che affascina e che rapisce, si sentivano i protagonisti vincenti di una folle storia immaginata da una fanciulla dagli occhi del colore della cioccolata, una ragazza che ancora ricorda la bambina che è stata e che sarà sempre, dentro, in fondo, nell’anima, se solo lo vorrà; si sentivano i protagonisti di una vita immaginaria bellissima e piena di avventure fantastiche e di enigmi sconvolgenti e di colori meravigliosi e di animali parlanti e di pesci che cambiano colore e di città incantate ferme nel tempo e nello spazio e di specchi con code da sirena e di bolle grandi come case e di chiavi magiche che servono a salvare dei nuovi amici in pericolo di vita. Così si sentivano e così erano. Bibo e Mimì, protagonisti della loro stessa storia, della loro stessa vita. Una vita magica in un mondo magico.
Quando si prova a seguire il percorso dell’arcobaleno si sa, non c’è speranza di raggiungerne la base, la fonte; e non c’è speranza di avvicinarsi tanto da vederlo meglio; non si può; è un semplicissimo e bellissimo gioco di luci creato dal vapore acqueo che il calore della terra e dell’atmosfera rilascia tramite le gocce di pioggia; il nostro occhio lo vedrà finché ci sarà vapore ma di certo non potrà esso confrontarsi con lui faccia a faccia. Ma non ditelo ai bambini, ne resterebbero delusi ed è bello che credano di poter davvero un giorno, se fortunati, anche solo sfiorare con un dito lo scivolo luminoso di uno di questi archi meravigliosi; non diteglielo, lasciate che siano a loro scoprire la verità, vivendo. Ma soprattutto, non ditelo a Bibo e Mimì, perché potrebbero darvi del folle e ridere di voi a crepapelle, come non hanno mai riso prima. Potrebbero sconvolgere la vostra vita e far crollare ogni vostro credo e ogni vostra solida roccia scientifica sulla quale vi basate e vi siete sempre basati per capire le stranezze della vita. Non ditelo ai due gemellini dai capelli rossi perché loro, loro l’hanno visto l’arco, hanno visto lo scivolo e forse chissà, hanno visto perfino gli unicorno giocare a fare i salti e spiccare il volo tra le nuvole, con la bocca spalancata verso la pioggia per assaporare ogni millimetro di quell’acqua magica. Sono bambini speciali Bibo e Mimì, sono stati prescelti. Reclutati per una missione di certo adatta solo ad un bambino, una persona che sia in grado di volare con la propria mente e di sorvolare palazzi e cieli e piste e torri di controllo; chiamati per un intervento di livello superiore in un mondo anch’esso superiore in cui il mare non è altro che una dimensione parallela nella quale vivono creature simili a noi e legate da un cordone ombellicale invisibile ma vitale per la sopravvivenza di entrambi i mondi. Loro hanno corso come pazzi in mezzo a tutti quei visi scuri che vagavano per la città, chi per lavoro, chi per svago, chi per commissioni, chi per altro; hanno corso più veloci della luce per raggiungere l’aeroporto e la sua torre di controllo bianca sul cui tetto si posava delicato l’arcobaleno, adagiato come una foglia sulla superficie di un laghetto fermo e lucido e pieno di misteri. Erano arrivati alla rete che divide la città dalle piste di decollo, ci erano arrivati chiedendosi se qualcun altro oltre a loro fosse in grado di vedere che proprio lì cadeva l’arco colorato, che esattamente a dieci metri da loro si mostrava orgoglioso lo spettacolo più bello e intenso che occhio umano abbia mai potuto ammirare da così vicino; erano arrivati chiedendosi anche se la loro madre li stesse cercando e se fosse preoccupata per la loro sorte e quale potesse essere il modo più semplice di farle sapere che stavano bene e che erano solo in missione segreta per conto di un cavalluccio marino che prima era un pappagallo tutto blu e che viveva in un mondo fantastico pieno di pesci parlanti in cui c’erano due gemelli uguali identici a loro che erano in pericolo e che solo loro due potevano salvare. Le risposte erano più semplici di qualsiasi altro enigma: no! Nessuno poteva assistere allo spettacolo di colori che fluttuava sulle piste e non c’era modo di far sapere alla madre che stavano bene e che erano diventati all’improvviso i protagonisti di una favola scritta da chissà chi dall’altra parte del mondo. Ma di sicuro la mamma era preoccupata perché da ore ormai aspettava alla centrale di polizia con le lacrime che le solcavano il viso e le arrossavano gli occhi, in attesa di una risposta felice da parte di un poliziotto che le dicesse Signora, ecco i suoi bambini, stanno bene, stanno bene!
Passare oltre la rete non sembrava difficile: qualcuno aveva creato un buco in basso cercando di celarlo con un cespuglietto poco rigoglioso; fu una sciocchezza passare al di là grazie a questo piccolo dono di chissà quale sconosciuto; decisamente provvidenziale. Saltare avrebbe attirato l’attenzione di chissà quante persone e i due bimbi non potevano certo permettersi un simile errore; avrebbero perso in partenza e loro dovevano vincere, dovevano trovare la chiave prima che il sole si mangiasse affamato il suo arcobaleno e tutti i suoi colori magici. L’arcobaleno si sa, viene e in un baleno se ne va.
Davanti a loro una strada lunghissima che sembrava non finire mai e poi mai, si sdraiava come un lenzuolo grigio in mezzo ad un letto di erba verde, soffice e umida; piccole gocce trasparenti giacevano leggere su ogni stelo riflettendo i movimenti delle nuvole e degli aerei che ci passavano attraverso in fase di decollo e atterraggio; e poco distante una torre bianca, con in cima una specie di buffo cappello rosso a strisce e grosse vetrate che tentavano invano di nascondere i controllori di volo, si alzava maestosa sorretta da una fonte di luce che nessuno riusciva a vedere; peccato, perché era davvero emozionante, sembrava che una enorme mano colorata a strisce stringesse delicatamente il tetto di quell’edificio, quasi a volerlo proteggere e forse anche un pò cullare. Bibo mise la manina in tasca e ne tirò fuori il gomitolo che tutto sembrava tranne l‘oggetto magico di un mondo sotterraneo e fantastico, lo puntò verso la fonte di luce e lo guardò, lo osservò con la bocca spalancata prendere vita colorarsi d’oro e strotolarsi piano piano come farebbe un cobra incantatore stimolato dalle vibrazioni del flauto; dava l’impressione di colare oro da tutte le parti come un vulcano che sputa lento la sua lava rossa e calda da piccoli crateri situati lungo tutto il suo percorso. La mano di Bibo vibrò dolcemente mentre il filo si allungava volteggiando nell’aria come una foglia che, invece di essere portata via dal vento, lo guida per farsi seguire verso un mondo migliore in cui anche lui, il vento, può volare via, col vento, trascinato, senza controllo, senza meta e senza freni. Il suo consiglio fu evidente: aggirare la torre bianca; seguendolo i bimbi si accorsero che sul retro dell’edificio una lunga scala, protetta da inferriate cilindriche, saliva fino a raggiungerne l’estremo; guardando in alto con la testa rivolta verso il cielo, videro una scia dorata volteggiare curiosa sui gradini fino ad arrivare in cima; sembrava un quadro bellissimo con uno sfondo pieno di luce e di colori in cui il filo di Arianna giocava con le creazioni dell’uomo prima di gettarsi nelle  fantasie di due bimbi di sei anni. Era incredibilmente isolato quell’angolo di mondo, come se la popolazione intera si fosse fatta da parte per un attimo in vista dell’impresa dei due piccoli eroi dall’animo buono e gentile. Gradino dopo gradino Bibo e Mimì salirono fin su in cima alla torre, sempre più abbagliati dallo splendore dell’arco che ora era nel pieno della sua potenza e delle sue capacità; raggiunsero la superficie in un batter d’occhio e capirono immediatamente quel che intendeva dire la madre quando gli parlava della piramide da cui si vede tutta la città, quando gli diceva che sarebbe stata una delle esperienze più belle di tutta una vita; capirono perfettamente che la loro mamma non era mai stata qui, su questa torre di controllo e non aveva mai visto questo splendore che ora i loro occhi stavano ammirando, mai sazi, sempre più affamati di bellezza e di magia. Si presero per mano come erano soliti fare, come avevano l’istinto di fare da sempre, provando un emozione forte. Si strinsero forte come se avessero timore di perdersi nell’oblio di tanta luminosità. Si guardarono dritto negli occhi fino a dimenticarsi quasi di essere lì e di essere i protagonisti di questa storia. Ti voglio bene, pensò Bibo. Ti voglio bene, rispose Mimì.
"Miur… Miur… Miur!!!", gli occhi dentro agli occhi, le mani nelle mani, il respiro in un respiro, l’amore dentro ai cuori, la speranza … in un sorriso. E la chiave apparì.
Di certo non poteva essere descritta come una chiave normale; di certo non si poteva dire che quella chiave fosse simile a qualche altra già vista prima; di certo non potevano i nostri bimbi pensare che mai avrebbero rivisto una chiave simile in nessun altro posto del pianeta, l’avessero cercata per tutta la vita in ogni angolo di mondo seguendo ogni arcobaleno di ogni poggia estiva. Perché una chiave come questa non esiste in nessun altro luogo, non esiste in nessun’altra storia, non esiste in nessun’altra fantasia. Era una chiave sì, ma era anche qualcos’altro, era anche tutt’altro, era anche il tutto, il niente, la luce e il buio, il giorno e la notte, il bianco e il nero, la gioia e la tristezza, l’amore e l’odio, il bene e il male. Era tutto, quella chiave. Tenerla in mano era potere. Tenerla in mano era brivido. Tenerla in mano era saggezza. Bibo si sentì improvvisamente un uomo pur restando bambino dentro e fuori; sentiva di potere tutto; sapeva che quella chiave lo avrebbe reso ciò che sarebbe stato in futuro: un Uomo.
Anche Mimì ebbe l’onore di provare tanta emozione; erano gemelli, erano in simbiosi, non ci fu nemmeno bisogno di impugnarla; la piccola bambina era nel corpo e nell’anima del fratello mentre lui stringeva in mano la chiave che era tutto; tutto. Stavano assaporando l’emozione più bella di tutta la vita, anche più di quella vista che poco fa li aveva tramortiti di piacere, quando il filo dorato si agitò, si arrotolò nell’aria creando un vortice di lucentezza che fece ritornare i bimbi alla realtà, una realtà in cui fili d’oro magici si arrotolano nell’aria creando vortici di lucentezza, si sciolse e si gettò giù per le scale con la velocità di un leopardo affamato in piena caccia. Fecero lo stesso con la velocità di due bambini di sei anni affamati di fantasia e avventura e libertà. Corsero saltellando nell’erba con l’ossigeno che gli riempiva polmoni e cervello fino a renderli ubriachi di vita e di magia. Corsero fino alla rete metallica che avevano attraversato poco prima, si sdraiarono sull’erba bagnata notando il rosso il verde e il giallo spiarire dal riflesso di quelle piccole gocce che, prima, mostravano gli aerei e le nuvole che sputavano acqua da ogni parte; strisciarono fino all’altro lato e se ne andarono felici.
Erano stati bravi, avevano superato la fase forse più difficile della loro missione e ora tornavano verso il centro della città dove il pappagallo blu li attendeva impaziente per portarli di nuovo al cospetto della bolla d’aria che aveva rinchiuso i sirenetti; restava poco tempo a Clò e Bia, l’ossigeno aveva iniziato già a pesare sui loro corpi schiacciandoli sulla superficie lattiginosa che li ospitava. Bibo e Mimì lo sapevano, lo sentivano, lo respiravano nell’aria, in quell’aria umana che assaporavano a pieni polmini, correndo come surfisti sulla cresta dell’onda. Passavano inosservati tra la folla con l’unico pensiero in testa che presto avrebbero abbracciato i loro nuovi fratelli, donandogli la libertà e la possibilità di ritornare a casa.
Giunti al cancello bianco si fermarono, stanchi e affannati, con le mani sulle ginocchia  e la schiena curva, respirando a pieni polmoni ossigeno che si faceva sempre pù leggero e pieno di energia. Passarono trenta secondi; le forze tornarono per magia, la stanchezza svanì nel nulla, tornando forse da dove era venuta, saltarono le sbarre bianche e si avvicinarono al pappagallo; chiusero gli occhi; la luce attorno si fece di nuovo forte e gli uccellini smisero di cantare le loro canzoni d’amore; la pelle si riempì di brividi e furono di nuovo sott’acqua. Salirono sulla sciena delle sogliole che ormai erano diventate le loro limousine personali e scivolarono via, verso la bolla d’aria e verso la fine della loro avventura. Fermi davanti alla sfera Niodo gli fece notare che la serratura era finita in fondo, sulla sabbia e si misero tutti insieme a spingere. I sirenetti dall’interni cercarono di fare meno peso possibile, essendo ormai allo stremo delle forze; il cavalluccio aveva chiamato a sé uno squadrone intero di amici, tra suoi simili, sogliole, pesci palla, pesci pagliaccio, meduse, delfini, razze, sardine, gamberoni, polipi e squali. Quest’ultimi, i più forti e grandi presero la rincorsa per spingere con più potenza possibile la bolla dal lato destro; i polipi con le loro ventose si erano attaccati alla parte alta della superficie rotonda spingendo in basso per farla rotolare sulla sabbia; i pesci palla si posizionarono sotto, tra il fondo bianco del mare e l’estremità della palla, gonfiandosi ogni volta che gli squali attaccavano a suon di testate; tutti gli altri, spingevano con tutte le forze che avevano tra le squame. Ognuno faceva la sua parte. Bibo aiutava con le mani mentre Mimì aspettava il momento giusto per inserire la chiave nella serratura nascosta tra i granelli di sabbia. La bolla era pesantissima, come un palazzo di tre piani dalle solide fondamenta; ma il mare, gentile amico di queste creature magiche, accorse in loro aiuto, facendo sopraggiungere una piccola tempesta che spingeva verso ovest dove i polipi si stavano consumando i polpastrelli a furia di tirare. I capelli di Mimì svolazzavano seguendo la corrente e i pesci più piccoli rotolavano nell’acqua come trottole impazzite. Sembrava tutto inutile. La bolla non voleva muoversi e i sirenetti stavano ormai annaspando all’interno quando, dal nulla, sbucò un’enorme orca bianca e nera; si schiantò con estrema violenza su di essa provocando un’onda d’urto che fece catapultare lontano tutti i cavallucci e i pesci pagliaccio che non sapevano dove aggrapparsi e tutti quelli che non avevano avuto il tempo di notare quella incredibile massa, sbucata da chissà dove. La sfera si mosse, gli squali si sdraiarono rapidi sotto di essa per non farla tornare indietro e Mimì con grande prontezza inserirì la chiave magica nella serratura e girò. Un gigantesco ‘Puff’ echeggiò nell’aria stordendo momentaneamente Bibo e la sorella che non erano abituati ai profondi rumori dell’oceano amplificati dalla forza dell’acqua e dalla pressione. L’enorme bolla sparì lasciando solo una serie infinita di piccole bollicine che scappavano via verso l’esterno, verso il mare aperto, verso est e verso ovest. I bimbi immaginarono l’esplosione di una grandissima bottiglia di acqua frizzante, in quel momento unico collegamento mentale col mondo esterno, di cui facevano ancora parte.
Finalmente Clò e Bia bevvero tutta l’acqua di cui avevano bisogno e di cui avevano avuto tanta nostalgia nelle ultime ore in cui, disperati, avevano temuto la morte. Le loro branchie si riempirono felici e ingorde. I loro volti tornarono a rasserenarsi e i corpi ritrovarono le forze perdute in men che non si dica, com’era stato prima per Bibo e Mimì, fuori dal cancello. L’energia di quel posto magico era miracolosa. La vita di quel posto magico era miracolosa.
"Grazie, amici, fratelli, compagni, grazie! Avete mantenuto la promessa e ci avete salvati; grazie; non fosse stato per voi…", Clò non poté nemmeno finire la frase, il solo pensiero le aveva bloccato le parole in gola, terrorizzate, timorose di trovare aria in cui espandersi e divenire reali.
"Siamo fratelli, e lo saremo per sempre d’ora in poi. Potrete contare su di noi per ogni cosa. Per tutto. Quando vorrete, quando ne avrete bisogno", concluse per lei il fratello Bia. Le loro voci risuonavano ora nel silenzio del mare profondo, come il suono più bello che orecchio umano abbia mai sentito, dolce, tenero, sincero, affidabile, amico. Imbarazzati per tante belle parole, i gemelli dai capelli rossi si commossero dolcemente e, tenendosi per mano, corsero ad abbracciare la fonte di tanta gioia e di tanta serenità. Guardarli insieme, stretti l’uno dentro l’abbraccio sincero dell’altro era magico, quanto il posto in cui si trovavano. Quanto l’avventura che stavano vivendo.
I pesci accorsi per il salvataggio piano piano tornarono da dove erano venuti, tornarono alla loro vita marina e alla loro famiglia, voltandosi ogni tanto, sorridendo e sospirando. Si era evitata la perdita di due sirenetti e questo era un bene, per tutti quanti, per questo mondo sotterraneo e per quello in superficie, se pur ignaro del collegamento e della potenza di tale simbiosi. Niodo stava parlando con i due sopravvissuti per assicurarsi che tutto fosse apposto nei loro corpi di sirenetti, mentre i nostri protagonisti ancora si abbracciavano stretti stretti come fosse la prima volta dopo tanti, tanti anni. Quando il cavalluccio tornò da loro tutto illuminato di blu, portandosi dietro anche i superstiti di questa dissavventura, la commozione fu grande, per tutti; sembrava che qualcosa di simile a lacrime stesse scendendo dai piccoli occhi di Niodo, ma la lucentezza del suo corpo non permise di capire; immaginare era più che sufficiente e accettabile. Clò aveva in mano due piccole squame che lei e il fratello si erano staccati dalla coda; risplendevano come lampadine intermittenti, di un colore indefinibile, che raccoglieva forse tutti i colori dell’arcobaleno.
"Per averci salvato, per aver reso possibile il nostro ritorno a casa e per essere stati così coraggiosi!", porgendo le squame luminose e piangendo dalla gioia, Clò donò loro un pezzo di sé stessi.
"Basterà strofinarle un pò; si aprirà una porta dorata, ovunque voi siate, in qualunque momento, a qualunque età; potremo abbracciarci e sorriderci e parlare e giocare. Potremo ringraziarvi ancora una volta per ciò che avete fatto oggi, qui"; increduli i due bimbi presero in mano quelle che sarebbero state d’ora in poi il loro personalissimo collegamento con questo mondo meraviglioso di cui hanno fatto parte, se pur per una sola splendida giornata.
"Grazie Clò, grazie Bia, con tutto il cuore", dissero insieme, tenendosi per mano. "E grazie a te, Niodo, per averci chiamati e guidati". Il piccolo cavalluccio marino si illuminò come un faro e abbassò la testa, emozionato, pieno d’amore incondizionato verso questi due bellissimi bambini dai capelli rossi e le lentiggini più carine del mondo.
"Ora dovete andare, vostra madre vi sta aspettando. Seguite il filo, vi condurrà da lei… e ricordate, sarete sempre i benvenuti qui, sempre". Queste ultime parole risuonarono come una promessa fraterna alle orecchie di Bibo e Mimì, che piano piano scivolavano via sulla schiena di due sogliole commosse dagli eventi a da tanto amore. Si girarono un attimo, sorridendo e salutando con la manina mentre l’altra stringeva forte la squama magica, il ricordo più caro di tutta questa avventura, poi, sparirono.
Nel giardino, fuori, dove gli alberi li osservavano curiosi e gli uccellini fischiettavano felici, il sole era tornato a splendere; e così su tutta Città  del Mexico. Bibo e Mimì si guardarono ancora una volta, ridendo questa volta come due bimbi, davvero come due bimbi, figli di un mondo reale in cui ridere era alla base di ogni buon sentimento, alla radice di ogni giornata. Si presero la mano, scavalcarono, si girarono un attimo, soffiarono un bacio ad un pappagallo blu che volava roteando nell’aria leggera di un giardino verdissimo e, seguendo un filo magico tutto dorato, corsero via, verso casa, verso l’amore di una madre che li aspettava a braccia aperte e verso la terza piramide più grande del mondo, dalla quale avrebbero visto, sicuramente, uno degli spettacoli più belli ed emozionanti di tutta la vita. Uno, sì, ma di certo, sicuramente, non il primo, non il più bello, non il più emozionante. Quello, se lo porteranno sempre nel cuore sapendo che quando vorranno, potranno. Potranno vivere ancora una volta la magia e lo splendore di un mondo meraviglioso di cui sono stati ospiti e testimoni. Potranno essere ancora una volta i protagonisti di una favola bellissima, scritta da due mani sconosciute lì, da qualche parte, in questo folle, pazzo e bellissimo mondo.

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