...fermiamoci ad osservare

lunedì 24 gennaio 2011

Come alberi

Mettere radici.
In un mondo corrotto e distrutto dalla prepotenza e dalla malvagità.
Mettere radici.
In un prato diabolico e privo di sensibilità.
Mettere radici.
In una storia in cui la vita non è facile ma a volte basta un complice e tutto è già più semplice.
Mettere radici.
E se siamo solo noi a farlo...allora non voglio.
Mettere radici.

                     


.Come alberi.

Siccome avevo preso un altro brutto voto, mio padre mi disse:
“Va bene, allora oggi verrai con me a lavorare. Così vedrai come si fatica!”.
Mio padre faceva il giardiniere, e andava in giro per i giardini altrui. Andava a potar piante, rastrellare foglie e tagliare erba col suo potente tagliaerba.
Quel giorno doveva occuparsi niente meno del giardino dei terribili Lorchitruci.
I Lorchitruci erano la famiglia più ricca e potente della collina. A me facevano paura due cose di loro: il nome, perché mi veniva da pensare a degli orchi molti truci; e il giardino, appunto, perché era chiuso da una muraglia gigantesca dietro la quale chissà che cosa mai si nascondeva.
Dovetti accettare mio malgrado. Non avevo scelta. Lui era mio padre, era la legge, l’unica legge da quando mamma è salita in cielo. Me l’ero proprio meritato! Non potevo scappare!
In pochi minuti di religioso silenzio il vecchio furgone rosso ci portò fino a lì, davanti al cancello dei Lorchitruci. Si aprì. Una lunga strada polverosa ci accompagnò alla fontana che stava proprio nel centro di un enorme giardino; raffigurava un orso polare in piedi con la bocca spalancata, come se urlasse al vento la sua forza e il suo dominio assoluto. Le ruote del furgone alzavano il terriccio secco lasciando correre alle nostre spalle una scia marrone simile alla nebbia e, guardandomi indietro, notai che il cancello non si vedeva più, avvolto e ricoperto da questa nube; il tutto già mi risultava fin troppo lugubre. Un maggiordomo silenzioso se ne stava a fissarci da un gazebo con le braccia conserte, tenendo la mano destra nella manica sinistra e viceversa, come a volerle nascondere a tutti i costi. Era alto e aveva un viso completamente butterato; ricordava la gruviera, formaggio che avevo sempre odiato. La casa era gigantesca! Bellissima! Ma l’aria tutt’attorno era strana, una sensazione di disagio banchettava nella mia testa. Se ne sentivano tante su questa residenza, in paese. Chissa che almeno una di quelle storie non fosse vera!
La famiglia aveva promesso a mio padre un cospicuo risarcimento per i servigi, così ci mettemmo subito al lavoro; mentre scaricavo il furgone notai che la signora, padrona di casa, ci fissava dall’uscio, con indosso dei vestiti tremendamente lugubri e una lunga pelliccia marrone, nonostante il caldo quasi soffocante; era inquietante; fumava, ma il fumo non lo sputava fuori, lo ingoiava tutto, lo mangiava, lo divorava! Senza lasciarmi influenzare da quell’immagine disarmante, iniziai a potare parte delle siepi più piccole mentre mio padre falciava l’erba col potente LorchiCut, il tagliaerba che aveva inventato il signor Lorchitruci anni addietro e che, per loro fortuna, li aveva arricchiti quasi immediatamente, rendendoli la famiglia potente e temuta che ora sono.
Era passata circa un’ora da quando eravamo giunti alla villa e mio padre aveva ormai terminato di utilizzare il prestigioso macchinario. Il sole picchiava sulle nostre teste come una colata di olio bollente sulla pelle nuda. In tutto quel tempo, in silenzio, senza muovere nemmeno un muscolo, la vecchia donna dai capelli rosso fuoco, un terrificante rossetto nero in pandant con gli abiti e la pelle più bianca che avessi mai visto, aveva osservato il nostro lavoro avvinghiata alla sua amatissima pelliccia di chissà quale povera bestiolina, continuando ad aspirare boccate su boccate di veleno bianco. Il mio servizio era piuttosto irrisorio, un po’ perché non avevo voglia, un po’ perché faceva davvero un caldo infernale, un po’ e soprattutto, perché era per me la prima volta che mettevo mano alle forbici di papà. Così mi fece vedere lui, iniziando da quella che sembrava una vera e propria muraglia circolare di erba fitta dietro alla quale si nascondevano una serie di sagome, stranamente perfette, senza necessità di essere curate o potate; rappresentavano un uomo e un bambino; accanto a loro altri tre figure maschili se ne stavano lì coi loro rami sempre verdi, immobili; sembrava quasi che guardassero la casa, sempre, instancabilmente, perennemente, ossessivamente! Seguii con gli occhi la traiettoria del loro sguardo e mi ritrovai a fissare l’enorme edificio insieme a loro; mi accorsi immediatamente che dietro una tenda grigia, al piano di sopra, si nascondeva una bambina; ci osservava, come faceva la madre; solo che lei sorrideva e il suo era un sorriso che accecava; il sole rimbalzava come una palla da flipper sul suo apparecchio e rendeva quel sorriso davvero poco innocente, anzi, decisamente angosciante, sinistro.
“Che strano”, disse mio padre tirandomi fuori da una specie di brutto sogno in cui ero sprofondato, “queste statue d’erba sono l’unica cosa in questo giardino che non ha bisogno di ritocchi, sono perfette così come sono; sembra quasi che qualcuno abbia trovato il modo di renderle… semplicemente eterne! Bah! Senti figliolo, ho sete, perché non chiedi alla signora di farmi una bella limonata con ghiaccio? E cerca di essere gentile, per favore! Non farmi fare brutta figura”. Detto, fatto! Mi avviai subito verso la casa e con grande sorpresa mi accorsi che né la signora impellicciata né la figlia dal sorriso tetro erano più lì a fissarci. Non c’erano più; erano sparite nel nulla! Perfino il maggiordomo che ricordava vagamente Franchestein sembrava introvabile. Entrai in casa, con passo timido, indeciso; chiesi permesso; dissi a voce alta, ma allo stesso tempo tremante, che mio padre chiedeva gentilmente una limonata; non feci in tempo a finire la frase che la vidi, lì sul tavolo della cucina, in un grosso bicchiere con tanto, tanto ghiaccio, come se qualcuno avesse sentito. Non avevano perso tempo!
Stavo per uscire quando sentii una voce dietro di me; un bambino, grasso, basso, tozzo, coi capelli rossi e le lentiggini su tutta la faccia, vestito come se vivesse negli anni cinquanta, parlava da solo; in realtà dava l’impressione di interagire con qualcuno, ma, ovviamente, nella stanza non v’eravamo che io e lui!
“Hanno messo radici, hai visto? Sì, hanno messo radici! Bisogna tagliare il tronco, il tronco è la soluzione! Sì! Le radici! Sì, il tronco, il tronco, il tronco”; scuoteva la testa avanti e indietro, su e giù, come se fosse autistico. Mi faceva paura guardarlo e ascoltarlo dire quelle frasi senza senso come se fosse completamente matto.
“Grazie…”, balbettai ed uscii in fretta continuando a guardarmi le spalle, rovesciando parte della bevanda a terra. Facendo finta di non accorgermi della scia di gocce gialle che stavo lasciando sui miei passi, arrivai da papà e glielo raccontai, subito dopo avergli dato il bicchiere; era sudato come non mai; fece una lunga sorsata e si asciugò la bocca col dorso della mano; sospirò stanco e mi disse che quello era tutto matto, come probabilmente il resto della famiglia, ma che ci avrebbero pagato profumatamente quindi, gambe in spalla, sorrisetto stampato sulla faccia e buon viso a cattivo gioco! Il suo volto sotto i raggi prepotenti del sole sembrava più vecchio di dieci anni. Poi aggiunse “Ecco, lo vedi? Che razza di limonata è mai questa? Sa di… di concime! Che schifo! Assaggiala figliolo, dimmi se non ho ragione” e in effetti aveva davvero quel sapore, concime! Che schifo! Improvvisamente qualcosa si mosse nelle mie scarpe; qualcosa di molto appuntito; sentivo come se mi stessero uscendo degli aghi dalla pelle, bruciava da morire; aprii la bocca per gridare, istintivamente, ma mi bloccai quando vidi che le gambe di mio papà erano sparite. I jeans non c’erano più, le scarpe nemmeno; al loro posto due lunghi rami di legno pieni di foglie verdi, come quelle che stavamo tagliando, si gettavano nella terra fresca e fertile. I sassolini si spostavano sotto la pressione di forti radici che crescevano velocemente da quel punto dove due minuti prima c’erano le sue caviglie, diretti dritti dritti verso il cuore del mondo stesso. Mi sentii come di piombo; ancorato a terra; avevamo messo radici, le nostre gambe si stavano legando al terreno, e più i secondi passavano più i nostri arti scomparivano lasciando posto ai rami e alle foglie. In un attimo entrambi stavamo gridando dal dolore; il cuore mi impazziva nel petto come un martello pneumatico in mano ad un sadico maniaco. Il vento soffiava sulle nostre facce stordite dal bruciore infernale che ci travolgeva e davanti alla casa, la donna dai capelli rossi, la figlia con l’apparecchio e il sorriso sghignazzante e i vestiti del dopo guerra, il maggiordomo e il marito della signora, che era spuntato fuori dal nulla, ridevano, come pazzi indemoniati; le loro risa sembravano grida di gabbiani e insieme guaiti di cani feroci. Si contorcevano dalla felicità, fissandoci e additandoci come se fossimi giullari incapaci. Il maggiordomo aveva finalmente estratto le mani dalle maniche mostrando due grossi rami di albero che le sostituivano. Insieme a questo suono terribile e soffocante si udivano delle voci di uomini e di un bambino; chiedevano aiuto, gridavano, piangevano, sputavano inutili suppliche. Aiutateci! Siamo incollati..siamo incatenati..siamo…siamo…siamo alberi!! Aiuto!! Provenivano da quelle figure che prima ci erano sembrate semplici composizioni artistiche e che ora erano diventate voci strazianti, di persone agonizzanti ancorate al terreno con radici che nessuno sarebbe più riuscito a distruggere; potevamo sentirle e potevamo vederle; quel bimbo e quei quattro uomini fatti di erba, stavano gridando in preda al terrore, immobili ma con gli occhi che ancora roteavano fugaci nelle orbite e noi, stavamo per finire esattamente come loro!
In un turbine di follia e disperazione e di lacrime verdi, ripensai a mia madre e ai suoi bellissimi capelli rossi e a quelle tenere lentiggini che le tempestavano il viso rendendola unica, bella, solare; un momento… come un fulmine mi giunse il pensiero: le lentiggini, il bambino grasso, diceva, diceva..il tronco è la soluzione, la soluzione, la soluzione!
“Papà, papà dobbiamo liberarci prima di diventare come quelle persone laggiù! Papà, dobbiamo tagliare il tronco, il tronco papà, il tronco è la soluzione!! Ricordi?”. Non avevo più visto mio padre piangere dalla morte della mamma e ora se ne stava lì, in piedi, piantato a terra con un fiume verde che gli inondava il volto e le forbici in mano, fissandosi le gambe che una volta lo randevano uomo e che adesso lo avevano tramutato in un orrendo alberello che presto sarebbe stato un sempre verde della collezione di una famiglia di matti. Poco più in là, il ragazzino continuava il suo monologo sbattendo la testa sempre più forte mentre gli altri ridevano a crepapelle tenendosi la pancia e rotolandosi a terra.
Fu un attimo. Una forte pressione sul pollice e zac! Mio padre cadde a terra come una sequoia segata di netto, facendo un tonfo sordo e sinistro che avrei ricordato forse per tutta la vita; se avessi potuto osservare il punto preciso del taglio, avrei notato che c’erano quarantotto cerchi che partivano dal centro espandendosi verso l’esterno. Piangendo e urlando con gli occhi che cercavano in tutti i modi di andarsene indietro, a cercare quel buio che gli avrebbe regalato conforto e pace, si trascinò ai miei piediradice e con un forte colpo tranciò di netto il mio corpo. Sentii la vita scorrere via, veloce, determinata, impaurita. Le risa erano improvvisamente terminate e attorno a noi regnava sovrano il silenzio. Tutto si fece nero e poi i sensi se ne andarono, lasciandoci inermi su una terra di cui non facevamo finalmente più parte; giunse il sonno e come in un sogno arrivò portandosi dietro la voce stridula di quella vecchia arpia con la pelliccia:
“Questa volta avete vinto voi… ma non finisce qui, giardinieri! Non finisce qui!”. La sua risata finale fu il suono più terrificante che uomo possa mai immaginare.

Aprii gli occhi. La luce era forte, profonda, artificiale, quasi finta. Davanti a me, la sveglia diceva che erano le sette e trenta minuti. Il foglio col 4 in matematica mi fissava ammonitore, di un rosso accecante. Mi alzai. I piedi erano sporchi di terra come se avessi vagato tutta la notte nel bosco, scalzo. Impronte marroni percorrevano la strada che mi avrebbe portato in cucina dove mio padre, anch’egli con i piedi zozzi fino alle caviglie, stava pulendo con lo sguardo fisso nel vuoto. Un’inquietante sensazione mi rincorreva ad ogni passo, qualcosa di noto, qualcosa di molto simile ad un dejà-vu, ma molto, molto più reale, come se vagasse sotto la mia pelle, se scorresse libero nelle mie vene. Porsi il compito a mio padre che lo guardò in silenzio. Stette lì a fissarlo con gli occhi spenti, per qualche minuto.
Disse:
“Va bene, allora oggi verrai con me a lavorare. Così vedrai come si fatica!”.
Quelle parole, quel tono, quella specie di mancanza di emozione nella sua voce…lo guardai, mi persi nei suoi occhi verdi, mi sentivo in sintonia con lui, in simbiosi, come legati da un destino solo nostro. Un percorso solo nostro. Un futuro soltanto nostro.
“Che giardino devi sistemare oggi, papà?”…….
“Quello sulla collina…quello dei Lorchitruci”.

 


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