Lo guardo. I suoi occhi sono terrorizzati. Mi fissano affogando in un mare di sale che sgorga triste e senza speranza, aspettando il suo momento. Quando verrà, il suo mare si fermerà; niente più onde nei suoi occhi, niente più risacche, niente più pesci e niente più navi, niente mulinelli, niente surfisti, niente piogge invernali e tepori estivi. Niente più. La vita, quella che lui conosce perderà di significato, di forma e di sostanza, celandosi dietro un turbine di sofferenza e agonia, prima di sparire del tutto. Prima di sparire nel Nulla. Nel mio Nulla.
Le ciglia lunghe e definite, per niente virili già di natura, tremano ora come bambine a cui è stato portato via il giochino stupido. Le palpebre stanche e infiammate per il troppo sale a cui sono esposte da lungo tempo, sbattono ripetutamente su e giù ricordando vecchie danze popolari dal ritmo sfrenato e divertente. La sensazione più forte che mi trasmettono però, non mi piace, mi infastidisce. Quel movimento perpetuo, ripetuto all’infinito riporta alla mia mente l’immagine di una macchina fotografica in mano a un reporter ingordo, che mi fissa e che mi spia. L’otturatore sale e scende, sale e scende, sale e scende in un moto continuo e tempestoso, scattandomi migliaia di scomode fotografie e ad ogni clic, ad ogni scatto, ad ogni apri e chiudi di quei maledetti occhi che mi implorano inutilmente pietà, un piccolo getto salato schizza sulla mia camicia nuova, rendendola umida e sporca della sua misera esistenza; e mi da tremendamente fastidio. Ma presto, questa sensazione cesserà. Io lo so e lui lo sa; e ne ha una paura fottuta. Io invece… io godo.
Il rumore della pioggia, fuori, cade senza freni sui tetti delle macchine, sui cassonetti dell’immondizia, sulle pozze che già si sono create per la strada. E’ musica dolce e soave per le mie orecchie; mi rilassa; mi fa apprezzare ancor di più, se possibile, questo momento già magico, con in pugno la mia pistola, col sorriso stampato sulla faccia, col potere nelle dita, nel grilletto.
“Ti prego” mi dice, “Ti prego non mi uccidere”. Dio…che risate. Che gioia. Che sensazione di assoluto potere e dominio, tenere nelle proprie mani la vita di una persona qualunque, di uno sconosciuto e guardarlo mentre aspetta il mio gesto, la mia decisione, la mia fatalità. Osservarlo sudare e piangere e gridare e implorare e mordersi le labbra secche e bere le proprie lacrime salate, zuppe di vergogna.
“Non uccidermi, ti prego”, gli ripeto con voce stridula, incrociando le braccia sul petto e stringendo le gambe come se fossi stato catapultato per un attimo nella vita di un bambino che cerca invano di trattenere una pipì che non vuole saperne di restare rinchiusa. La mia faccia si deforma in un’espressione di sarcasmo che farebbe infuriare chiunque, mentre lo guardo piangere e disperare in ginocchio davanti a me, con le mani legate dietro la schiena, il mento alto e lo sguardo fisso sui miei occhi.
“Zitto!” gli dico digrignando i denti. Voglio godermi il momento in santa pace. “Sta zitto cane schifoso”. E lui lo fa; singhiozza in silenzio, piange in silenzio, prega in silenzio. Socchiudo gli occhi e lascio ampio spazio agli altri sensi. L’aria è calda qui dentro, soprattutto vicino a lui, che suda come stesse affrontando la corsa più faticosa di tutta la sua vita; posso percepire le particelle dei suoi liquidi terrorizzati, sulla mia pelle. Posso sentirne l’odore nauseante filtrarmi rapido nelle narici per infastidire il mio cervello che, però, invece di sentirsi disturbato, ne trae piacere e soddisfazione.
L’aria comincia a farsi pesante nella stanza piccola di questo schifosissimo motel; i vetri si appannano dal basso verso l’alto, facendo condensa tra pioggia e respiri affannosi. I miei polpastrelli poggiano felici sul calcio della pistola mentre il grilletto, fermo e freddo, sembra dialogare allegramente col mio dito indice, che aspetta ansioso il momento decisivo; il momento più bello di questa grigia giornata. Il suo momento.
Apro gli occhi e li lascio cadere dolcemente nei suoi, fradici di tristezza e di rimpianti. Occhi, quelli che osservo ora, i quali maledicono il giorno in cui hanno visto; in cui si sono fatti troppo, troppo curiosi, immischiandosi in affari di persone con cui non avrebbero mai dovuto avere a che fare, per nessuna ragione al mondo. Osservo lacrime che mai più vedrò in vita mia, seguire tristi il percorso gravitazionale che porta dritto al pavimento, alla terra; sotto terra. Polvere alla polvere, cenere alla cenere.
Una sorta di malessere mi aggredisce la mente, ora che so che tutto questo sta per finire; ora che sto per premere il grilletto e porre fine ad una vita. Ad un’altra vita. E così porre fine anche a questo gioco.
Cinque minuti. Solo cinque minuti mi sono concessi dal momento in cui vedo per la prima volta il mio cliente, all’istante in cui decido del suo destino, lasciando cadere la mia ghigliottina polverosa sul collo della sua anima inquieta. Minuti in cui mi sento un Dio, in cui sento la vita, la vera vita piena, scorrere nelle mie vene, partendo dal cuore per arrivare in ogni punto del corpo, prima di fermarsi in quell’angolo nascosto del cervello, che assimila ed identifica il piacere; quella stessa zona stimolata durante un rapporto sessuale e che ti fa godere, lasciando travolgere la propria essenza da sensazioni impagabili, ogni volta con un sapore diverso.
È il momento. Carico il tamburo. La mia mano è ferma e decisa, ansiosa.
“Hai delle preghiere? Dille”.
La sua voce è tremante, stridula, rotta in fondo alla gola.
“Ti prego. Ti supplico, io… io non dirò nulla. Io… sparirò lo giuro. E… e non sentirete più parlare di me. Mai più”. Sembra un bambino disperato per il dolore dei dentini che crescono di notte, e insieme un maiale, che strilla grugniti prima di andare al macello, come se sapesse di che morte dovrà morire.
“Andiamo amico… non ho famiglia… posso sparire… posso… andrò via, lo giuro”.
Non hai famiglia, penso, meglio così; nessuno rimpiangerà la tua morte. In fondo… amico… sei fortunato.
Una luce soffusa, ma brillante, entra furtiva dalla finestra ad illuminare il suo volto che, ora, sembra più vecchio di vent’anni. Cosa darebbe quest’uomo, adesso, per un sorriso sincero ed un abbraccio? La vita, forse? Si, ne sono certo; la darebbe e la darà. La darà a me e io la prenderò, come faccio sempre.
Allargo le labbra, mostrando felice gli incisivi e dedico a quest’uomo distrutto dal dolore, quattro secondi della mia più sincera gioia e, allo stesso tempo, quattro secondi di pura illusione e falsa speranza. Mi ricambia il sorriso con occhi gonfi e rossi e pieni di onde, navi, pesci, mulinelli, piogge invernali e tepori estivi e, in questo istante, mi accorgo del colore delle sue iridi stanche; azzurre. Azzurre come il mare. Come l’oceano.
“Mi dispiace. Niente abbraccio”. Premo il grilletto. Il proiettile fugge via dal silenziatore, rapido e determinato. Il cranio si apre. Le lacrime scendono rosse sul viso, che crolla a terra, seguito dal resto del corpo, senza vita… senza onde… sena risacche.
Metto via la pistola calda, ancora fumante; lo guardo un’ultima volta, riverso con la faccia a terra e gli occhi fissi sul pavimento e il sangue, il suo stesso sangue, che gli fa da cuscino, su un letto scomodo, che non sarà l’ultimo. Mi accendo una sigaretta mentre i fari di una macchina in strada mi illuminano il volto e mi riportano alla realtà, ricordandomi tristemente che i cinque minuti di piacere sono terminati; ho avuto il mio orgasmo. Ora, non mi resta che andare, gustandomi la fumata.
Apro la porta della stanza numero 7 del motel. La richiudo alle mie spalle. Faccio tre passi. La pioggia mi bagna il volto scendendo veloce dentro la camicia sbottonata. La luce cade dritta sulla mia figura. L’atmosfera è perfetta. Guardo davanti a me. La mia donna mi osserva innamorata più che mai e commossa. Ammiro l’orizzonte, le luci della città. Aspiro l’ultima boccata calda di tabacco. Getto il mozzicone a terra, che si spegne sotto le gocce di pioggia artificiale. Sputo fuori il fumo e resto immobile.
“Eeeee… stop!”
Lei mi applaude felice. Il regista osserva e riosserva i monitor. Il mio collega, morto con un buco in fronte, si alza, apre la porta, mi raggiunge e mi posa una mano sulla spalla.
“Sei stato grande”, dice “Davvero”.
“Si. Anche tu”. Ci guardiamo sorridendo. Ci abbracciamo. Ci incamminiamo verso la troupe e mentre gli applausi sinceri dei collaboratori allietano i nostri timpani, l’aiuto regista preme il pulsante magico, la macchina si spegne e sulle nostre teste, smette di piovere.